
Cosa ha significato internet nelle nostre vite quotidiane? Quante abitudini sono andate perdute e quanti oggetti sono diventati, tecnicamente, improvvisamente superflui, smarrendo senso e utilità? Cosa è cambiato nella socialità e da quanti e quali punti di vista? In quanto tempo è successo tutto questo, almeno nelle società occidentali? Esistono oggetti o abitudini alle quali siamo riusciti a dire addio senza rimpianti? Al contrario: in quali contesti e in quali ambiti si concentrano le maggiori nostalgie? E quanto sono diffuse, e tra quali categorie professionali, in particolare? Perché Pamela Paul scrive che, da certi punti di vista, è scomparsa la noia nelle nostre esistenze? In che senso lo smartphone è andato a cancellare i tempi morti, nelle nostre vite? Davvero la noia era madre di creatività e immaginazione più potente? E cosa è rimasto, oggi, di quei “tempi morti”, e in che senso dobbiamo difenderne l’esistenza? Cosa significava “perdersi” nell’epoca pre-internet, e in che senso poteva essere veramente una disgrazia? E perché oggi non ha quasi più importanza sapersi orientare autonomamente in una metropoli, così come in una città? E quanto era irrimediabile perdere un biglietto, e quanto inconsolabili eravamo quando perdevamo la nostra preziosissima unica copia? E come e quanto incredibilmente è cambiato il nostro rapporto con la fotografia, casa per casa, post smartphone e post internet? Quanto tempo e quanto denaro abbiamo imparato a risparmiare? Da quando è iniziata la mania dei selfie e in che senso è differente dai nostri vecchi autoscatti? E come sono cambiati i nostri archivi cartacei, e quanto sono diventati più leggeri, negli ultimi anni? Quanto è cambiata la vita sentimentale con internet? Quanto è condizionata e in quanti modi dai social network? E come è cambiato il rapporto tra genitori e figli, e in che senso sono mutate le abitudini di controllo o di supervisione dei bambini e degli adolescenti? E come sono cambiati i mercatini, e in che senso si sono trasformati in vetrine o poco più, almeno per certi oggetti? Che fine hanno fatto i taccuini, che fine hanno fatto le rubriche e le agende? E cosa ha significato la cancellazione della centralità del “telefono di casa”, nei nostri appartamenti e soprattutto nelle nostre famiglie? Quanti riti e quante abitudini sono andate praticamente disintegrate? E che vuol dire che una telefonata persa poteva cambiarvi la vita? Cosa significa, psicologicamente, oggi, essere “disconnessi”? In che senso è inquietante la sensazione che diversi tra noi non sappiano più stare completamente da soli per un determinato lasso di tempo? Cosa vuol dire che internet e la tecnologia finiscono per diventare, in certi casi e in certi contesti, una distrazione? Cosa significava, pre-internet, “viaggiare da soli” e quanta distanza stabiliva tra un individuo e la sua famiglia, i suoi amici e le sue radici, in genere? E oggi quanto è differente, considerando che si viene localizzati, tracciati e contattati sostanzialmente ovunque e potenzialmente in qualsiasi momento? Cosa ne è stato delle nostre vecchie mappe di carta, spiegazzate magari in quattro o in otto, piene di appunti e di segni lasciati a penna? Quanto sono estranee alle abitudini delle nuove generazioni, viziate da Google Earth? Cosa ne sarà di noi quando moriremo? Quanto di noi rimarrà su internet, a disposizione di chi ci sopravvivrà, e come verrà utilizzato? Perché non riusciamo a staccarci da ciò che abbiamo pubblicato su internet, foto, articolo, status o boutade che sia, e quanto è pericolosa questa cosa?
100 Things We’ve Lost to the Internet, originariamente apparso per la Penguin nel 2021, è stato stampato in prima edizione italiana per il Saggiatore, nella buona traduzione di Fabio Galimberti, nella primavera 2022; intatte le buffe illustrazioni di Nishanti Choksi. Si tratta di un apprezzabile saggio di costume occidentale; di una piacevole e molto ripetitiva meditazione sui cambiamenti tecnologici e sociali intercorsi negli ultimi venti anni e di una buona opportunità per ricordare con malinconia e con nostalgia tutta una serie di scelte, di vizi, di ozi e di preferenze che abbiamo dimenticato. Non è corretto definirlo libro “generazionale”, perché ha chiaramente l’ambizione di essere trasversale e plurigenerazionale; tuttavia, devo riconoscere che la generazione nata negli anni Sessanta e Settanta, o al limite nei primissimi anni Ottanta, potrebbe essere quella che finisce per ritrovarsi o specchiarsi di più in questo impetuoso e travolgente (e sconvolgente) cambiamento che abbiamo vissuto e che la Paul descrive con tanto brio e buona personalità; io sono del 1978 e ricordo perfettamente tutta una serie di “prime volte” figliate da internet o dalle evoluzioni delle tecnologie, in genere, vissute quando con perplessità quando con un senso di profonda liberazione (ammettiamolo: tutti abbiamo perso un capitale per sviluppare orribili rullini di foto, inutili o quasi, aspettando oltretutto un sacco di giorni prima di scoprire la loro costosa futilità. In questo senso è bene aver abbandonato il Novecento; è solo l’esempio più positivo e più nitido; il disastro del collasso dell’industria del disco, e prossimamente, immagino, dell’industria del cinema, è invece tutto da deplorare e da raccontare; il cinema non ha ancora finito di stramazzare, a differenza della musica). Forse uno dei limiti di questo saggio è la sua ripetitività; forse si poteva scegliere “70 Things” e non cento, pubblicando un saggio di diverso impatto e diversa potenza. Repetita iuvant, dicevano i padri latini: magari Pamela Paul voleva insistere proprio su determinati aspetti per essere più incisiva. Chiudiamo con qualche notizia biobibliografica. La Paul, classe 1971, già editor del «New York Times Book Review» dal 2013 al 2022, collabora col «New York Times» e, come scrittrice, si dedica per lo più, a quella che chiama “intersezione tra la cultura consumistica e la vita vera”. Ha esordito pubblicando un memoir ispirato alla fine del suo primo matrimonio, chiamato The Starter Marriage and the Future of Matrimony; sin qua è inedito in Italia.