
So bene quanto sia raro che un uomo viva fino all’età di centoventi anni. E ciò nondimeno, quando lo scorso 13 febbraio Dominique mi ha telefonato da Liegi per informarmi che lì, nella città che a Georges Simenon ha dato i natali lo stesso giorno del 1903, erano iniziate le celebrazioni previste per la ricorrenza, mi ha punto vaghezza di chiedergli se il festeggiato per caso non si trovasse sul posto.
Ebbene sì, lo confesso anche al numeroso pubblico di Mangialibri, appartengo al nutrito elenco di persone che stentano a credere che il padre letterario del commissario Maigret non sia più in vita. Devo questa mia controversa perplessità al fatto che di tanto in tanto scorgo in libreria la nuova pubblicazione di una sua opera che ancora non ho letto a dispetto del nutrito numero di suoi romanzi che sono presenti nella mia biblioteca. Mi ripeto continuamente che Simenon ha scritto oltre centocinquanta romanzi, ma ogni volta che Adelphi compie la meritoria opera di tradurre e pubblicarne uno, sorge in me la sensazione che si tratti invece di una nuova opera pervenutaci da un luogo imprecisato, nel quale potrebbe aver trovato eterno riparo per grazia ricevuta da una protettiva divinità letteraria.
Si tratta di una supposizione, se volete assurda o quantomeno suggestiva, che non sono riuscito a fugare nemmeno quando alcuni anni orsono assunsi la decisione di recarmi a Losanna, dove ci viene detto che il 4 settembre del 1989 il romanziere trasse l’ultimo respiro. Perché nella “casa rosa”, l’antica abitazione del XVIII secolo ubicata al nr. 12 di rue de Figuiers in cui dal 1974 si era ritirato a vivere in compagnia di Teresa Sburelin, stanze ed arredi risultavano intatti e parevano perfino profumare ancora dell’aromatico tabacco della sua pipa. L’imponente sagoma del cedro del Libano ombreggiava la quiete del giardino in cui egli amava sostare e osservare, seduto sulla panchina, i fiori e gli uccellini e dove la figlia ci dice che sono state disperse le ceneri del padre. Comunque e ovunque egli sia finito, centoventi anni dalla sua data di nascita sono pur sempre trascorsi. Bene fanno, dunque, i suoi connazionali a celebrarlo, gli editori a divulgarne le opere e i lettori a leggerle. Purché si tenga presente che, al di là del fatto che Georges Simenon risulti prevalentemente noto come creatore del commissario Maigret, è nei libri che trattano diverso e disparato argomento che emerge la sua vena letteraria più autentica, quella che consentì ad André Gide di indicarlo come uno dei più grando autori del Novecento.
Dunque, il consiglio che ci sentiamo di rivolgere al lettore è di cogliere la ricorrenza come utile pretesto per leggere sia questi ultimi che i romanzi in cui compare per protagonista l’ispettore di Quai des Orfèvres, poliziotto dall’indole quantomai umana e comprensiva benché affetto da una vena di latente tristezza, solo in parte mitigata dalla natura mite e paziente della consorte. La chiave di volta nella produzione letteraria di Simenon risiede nel rapporto con il suo vissuto personale, segnato dalla sofferenza provata prima nel doversi adattare alla condizione di belga dalle solide radici famigliari. Quindi, dall’ansia di recidere tale cordone ombelicale attraverso un continuo girovagare tra viaggi e trasferte. Negli anni Venti lo troviamo a Parigi, dove incomincia a scrivere racconti settimanali su varie riviste utilizzando diversi pseudonimi. Le se pubblicazioni letterarie divengono in breve tempo assai numerose e riscuotono un crescente apprezzamento, garantendogli un rapido successo economico. Dalla capitale si sposterà poi in altre località della Francia, tra cui la Vandea e le regioni del Nord. Al termine della Seconda Guerra Mondiale si trasferisce in terra statunitense per sfuggire ad accuse di collaborazionismo peraltro rivelatesi in seguito infondate. Qui conosce Denyse Ouimet, che diventerà la sua seconda moglie e madre di tre suoi figli. Ritorna in Europa negli anni Cinquanta, prima in Costa Azzurra e poi a Losanna.
Ecco quindi spiegata la doppia componente dell’intera produzione di Simenon, caratterizzati da racconti ambientati nelle vaste distese dei paesaggi di campagna della sua terra nativa nei quali cresce lentamente la pianta malata dell’ossessione che si dipanerà conducendo tutti alla rovina. E da altri in cui il velo mansueto che avvolge la provincia operosa e rispettabile viene squarciato dall’ingerenza improvvisa di quell’ossessione che si presenta in forma amorosa o erotica. Il filo che lega tutte le opere tra loro in flusso continuo che, come dicevo, si addice ancora al nostro tempo.