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1968 - L’autunno di Praga

Il nome di Alexandre Dubček si afferma con convinzione nel gennaio del 1968, in pieno processo di revisione del partito comunista cecoslovacco, il cui segretario era Antonin Novotny, fra i sostenitori dell’ortodossia russa. Dubček subentra a Novotny come segretario con un mandato molto chiaro: riportare in Cecoslovacchia la libertà di pensiero ed un “socialismo umano”. Di lui, della sua forza carismatica, non si era ancora reso conto il russo Leonid Brežnev che pure l’aveva incontrato in tempi non sospetti senza degnarlo di una parola significativa. Né il governo americano aveva avuto modo di studiare a fondo le tensioni in quella parte d’Europa viste le tensioni che stavano attraversando il più grande Paese non comunista del mondo: il fronte di opposizione alla guerra in Vietnam, le tensioni sociali che sfoceranno nell’omicidio di John F. Kennedy e Martin Luther King, la guerra fredda sul fronte cubano, non permettevano distrazioni. Eppure Dubček stava costruendo un nuovo tipo di consenso, quello del socialismo reale ma umano: è tempo di rinnegare i metodi oscurantisti del partito comunista russo per avviare una democrazia nuova, aperta. Le sue parole suonano come un disegno di speranza che rischia di contagiare non solo il suo popolo, ma anche quelli geograficamente e ideologicamente vicini, dalla Romania fino alla Polonia, passando per l’Ungheria. A quel punto sulla primavera di Praga calano inesorabili i carri armati dei Paesi del Patto di Varsavia. È il 20 agosto 1968: con qualche settimana di anticipo comincia l’autunno di Praga…

A Praga Demetrio Volcic, inviato dall’Europa dell’Est della RAI, era capitato per caso il 31 dicembre 1967: quel viaggio non era programmato, eppure l’aria nuova, il congresso del partito comunista cecoslovacco alle porte gli avevano fatto intuire che si stava compiendo una nuova importante pagina di storia. Con il suo saggio, racconto documentato di un vissuto, il giornalista riesce a ricostruire la fitta trama di avvenimenti che stavano sconvolgendo la Cecoslovacchia, ma in generale tutto il fronte dell’Est comunista, in modo che, ripercorrendo i ritratti puntuali dei personaggi che hanno caratterizzato quegli anni e quei posti, si riesca a ricostruire e comprendere l’intero quadro di insieme. Demetrio Volcic riesce a far rivivere il clima di tensione positivo che si stava polarizzando in quegli anni in una grande illusione, nella ricerca di una svolta, terminata invece con una grande delusione e indimenticabili martirii: il lettore è portato a rivivere i momenti frenetici del congresso, ma anche le tragedie di Jan Masaryk, caduto nel vuoto omicida o suicida, dello studente Jan Palach, che con lucida freddezza si diede fuoco nella piazza di San Venceslao, fornendo l’esempio all’operaio ventiseienne Josef Hlavaty, pochi giorni dopo, allo studente diciannovenne Jan Zajíc, e infine all’altro operaio trenatonovenne Evžen Plocek, tutti morti arsi vivi suicidi. È un quadro percorso dalla speranza e dalla disillusione, nel quale si sono forgiate le pagine della storia attuale dell’Est europeo: il contributo di Volcic nel ripercorrerle e spiegarle è essenziale. Per questo, e anche in considerazione della leggerezza della scrittura, che comunque conserva un suo peso specifico, è una lettura da non rimandare.