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Abbandono

abbandono

Primo dicembre 1949, Rita è sveglia mentre una “luce grigia di nebbia” si insinua tra le tende. È appena passato il camioncino del latte fuori dalla sua casa al numero 37 di Grange Park Avenue, Londra Nord. Quella sembra una mattina identica a tante altre mattine, ma non è così, è solo una messinscena. Ciò che è avvenuto il giorno prima, andare con Vidal a Enfield con l’autobus, ottenere il certificato col timbro municipale che adesso, chiuso nella busta, sta all’ingresso in mezzo alle bollette da pagare, non è stato elettrizzante come credeva, ma insignificante e banale. Rita è pronta ad affrontare la giornata, rassicurante nella sua monotonia, con la certezza che ciò che hanno fatto dovrà restare un segreto per sempre. Nessuno deve sapere, perché significherebbe che “non l’avevano fatto prima”. Le cose non vanno mai come ci si aspetta e questo vale anche per il matrimonio. Rita scende in cucina, fa entrare il gatto, si accende una sigaretta, ritira il latte e il giornale, ammira le splendide ortensie del suo giardino e si sente ricca, non le manca nulla, a parte ciò che non sa cosa sia, ma quel buio che ha dentro di sé pensa sia anch’esso una parte di felicità. Sua madre Emilia è morta da tempo o inorridirebbe per la sua vergogna, paragonandola al padre, l’accusa peggiore, il legame col peccato. Prepara la colazione e aspetta che suo marito Vidal vada al lavoro e sua figlia minore Yvonne a scuola. Sally, la primogenita, li ha lasciati, dopo anni di conflitto con il padre. Finalmente resta sola in casa, il suo regno silenzioso, dove si appresta a trascorrere la giornata, a svolgere le faccende quotidiane. In giardino ci sono le foglie da rastrellare, le erbacce da estirpare, i cumuli da bruciare, se fa le stesse cose di tutti i giorni, forse quella mattina non sarà poi così diversa dalle altre. Seduta in cucina sfoglia il giornale, scrivono che si intende proibire l’importazione dall’Irlanda di zucchero, frutta secca e carne in scatola, ma è un altro articolo a incuriosirla, quattro uomini durante un programma radiofonico della Bbc hanno discusso di come debba essere la donna perfetta (senza interpellare una donna naturalmente). L’articolo riporta con tono sarcastico le loro conclusioni: empatica, di umore stabile e gentile. Rita legge, ma non riesce a concentrarsi, il tormento per quel segreto custodito per vent’anni la fa soffrire. La cerimonia del giorno prima non ha risolto nulla, perché non può dire a nessuno che si sono sposati, rivelerebbe che prima non lo erano. Rita Gertrude Blitz si è sposata sei settimane dopo il suo cinquantesimo compleanno e vorrebbe che quella giornata non fosse mai esistita…

“Un racconto è fatto di scelte, anche quello della nostra vita, si sceglie cosa tenere e cosa scartare”. L’11 luglio 1942, a Salonicco, i nazifascisti radunano ottomilacinquecento uomini ebrei nella piazza della Libertà. Li costringono a trascorrere ore sotto il sole cocente e svolgere esercizi ginnici umilianti fino allo sfinimento. Quel giorno è passato alla storia come Black Sabbath. Tra costoro Vidal Coenca non c’è, lui e la sua famiglia sono riusciti ad allontanarsi da tempo, nel documento rilasciatogli nel 1912 dalla London Metropolitan Police c’è scritto un generico “Spanish Jew from the Ottoman Empire”. Elisabeth Katherine Åsbrink (Göteborg 1965) ha impiegato due anni per la stesura di questo romanzo, portando avanti un lavoro di ricerca puntiglioso, viaggiando in Germania, Grecia, Parigi, Spagna e Regno Unito, per ripercorrere gli eventi storici che hanno portato alla dispersione degli ebrei spagnoli, dall’esilio di massa dalla Spagna nel 1492 all’avvento del nazismo, fino alla tragedia dei campi di sterminio. Per risalire alle origini di Vidal Coenca, alle deportazioni degli ebrei da Salonicco, da cui partivano i convogli per Auschwitz, alla distruzione del cimitero monumentale nel 1943 e di tutte le famiglie e i ricordi a esso connessi, inclusa la sua. L’abbandono è il comune denominatore che lega le donne e gli uomini protagonisti di questo romanzo che esplora tre generazioni in tre città, che racconta come il peso delle proprie origini, della famiglia di provenienza, delle radici sradicate dai luoghi di nascita possa condizionare ogni istante della vita, ogni relazione umana e mettere a dura prova matrimoni e rapporti tra genitori e figli. L’abbandono assume diverse forme, come quella di chi ci ha amato e poi tradito o quella della felicità che si trasforma da presenza in assenza. Non solo le persone ci lasciano, ma anche le emozioni. Rita ha due figlie da un uomo ebreo sefardita che non la può sposare, almeno finché la madre è in vita o il disonore distruggerebbe la famiglia. Sally fugge in Svezia appena ha l’età per farlo, per scappare da quel padre ebreo che la tratta con freddezza, forse perché è così simile a lui: pelle olivastra, capelli scuri, mentre riversa affetto e tenerezza sulla figlia minore Yvonne, chiara, bionda, tanto simile alla madre. Anche Katherine, figlia di Sally e nipote di Rita, assimila l’abbandono del proprio padre, anche lui ebreo e di cui è vietato pronunciare il nome, lo fa attraverso il dolore smisurato e distruttivo della madre, la sua furia, le parole-che-non-devono-essere-pronunciate: amore, matrimonio, felicità, papà, sono tra queste, ma la lista è lunga. Su tutte però aleggia la più terribile, quella che la lega tramite il sangue a un passato di stermini e orrore. Ed è proprio rincorrendo le sue origini ebree che Katherine da adulta cerca di riempire i vuoti di un’esistenza fatta di solitudine, allerta e abbandono. “All’inizio avevo pensato di intitolare questo libro semplicemente Solitudine. È un romanzo, e quindi tutto ciò che racconta è vero”. Il viaggio di Katherine è il viaggio della Åsbrink, per cercare di dare un nome all’ombra che la segue da tutta la vita, attraverso questo libro, attraverso il doloroso recupero delle tessere di un mosaico che portano alla scoperta del proprio passato e alla sua comprensione.