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Ada brucia

Ada brucia

Rino toglie il cappuccio dal pennarello e fa una X rossa sul calendario, in corrispondenza della data, quattro aprile 1980, come se non fosse il grado di ricordare il giorno senza barrare la casella. È venerdì, i raggi del sole illuminano la finestra del soggiorno, che avrebbe bisogno di esser pulita, pensa Rino mentre sorseggia un caffè e guarda l’ora: è mezzogiorno. Tra poco dovrà recarsi in città; la settimana scorsa non è stato pagato per l’ultimo lavoro fatto, ma sono così tanti anni che lui, e il nonno prima di lui, vendono i loro lavori di legno intagliato - per lo più orologi - in quel negozio che si fida ciecamente di Egidio, il committente. Calza gli scarponi sporchi di fango, chiude la finestra ed esce di casa. Raggiunge il sentiero che rappresenta l’unico collegamento tra la casa e la strada, mentre respira l’aria limpida e tiepida di inizio primavera. Quando il nonno è morto, per qualche giorno ha avuto un po’ di paura al pensiero di vivere in un luogo così isolato, ma poi si è reso conto che la solitudine non è affatto pericolosa. Una volta arrivato in prossimità della città, parcheggia il suo furgone e arriva a piedi al negozio di Egidio. Mentre attende che l’amico scenda dal suo appartamento - è ora di pranzo ed Egidio e la moglie sono saliti in casa per mangiare - per consegnargli la busta con i soldi, Rino sposta gli occhi sul vetro della finestra su cui si riflette la strada del centro e vede una bambina. È bionda, ha una giacchetta di lana viola su un abitino rosa e gli si avvicina per porgergli un fiore. Rino non muove un muscolo, poi accetta il fiore e le sorride, mentre la piccola si allontana richiamata dalla madre. Conclude con Egidio e si allontana più in fretta che può. Quando arriva al furgone è senza fiato; durante i cinque minuti che lo separano da casa piange; si dice di smettere, ma le lacrime scendono comunque. Solo quando è di nuovo all’interno della sua abitazione ed ha chiuso la porta dietro di sé con una spinta rabbiosa riesce a prendere un bel respiro e a smettere di piangere. Una bambina, sì una bambina, si ripete mentre, dopo aver recuperato da una scatola posta sotto il suo letto una magliettina rosa a maniche corte con la scritta Barbie sul davanti, si chiude in bagno e gira due volte la chiave...

Due gambe nude, le gambe di una bambina o poco più, e un paio di calzettoni verdi ai piedi, piedi che poggiano su un prato, piedi accanto ai quali arde un fuoco. La copertina del romanzo di Anja Trevisan, giovanissima scrittrice padovana al suo brillante esordio letterario, realizzata da Chiara De Marco richiama fortemente la copertina disegnata da Bruno Binosi per Lolita, di Vladimir Nabokov, Oscar Mondadori, nel 1970. Ed il richiamo non è affatto casuale: la storia narrata dalla Trevisan riguarda, così come l’opera di Nabokov, una forma d’amore tra le più controverse. È la storia di Rino, giovane intagliatore di un piccolo paese, personaggio solitario e riservato, la cui vita scorre in maniera piuttosto semplice fino all’incontro con una bambina figlia di conoscenti. Rino si innamora della piccola, è convinto sia destinata a lui e a lui soltanto, la rapisce, le attribuisce un nuovo nome, Ada, e plasma per lei un nuovo mondo, circoscritto all’interno della sua abitazione, dalla quale la piccola non può uscire, perché fuori tutto brucia e Ada ha i piedi troppo piccoli e non ci sono scarpe della sua misura che potrebbero impedirle di bruciarsi, nel caso toccasse l’erba che circonda la casa. Ada vive così, tra bugie e sogni, in un carcere dorato, senza preoccuparsi di cosa ci sia oltre, al di là di Rino, che le fa conoscere una sola delle facce dell’amore, la sua. Ogni domanda trova risposta unicamente nel rapporto con il suo “Bapu”, che la ama incondizionatamente e rispetta, sia pur secondo una propria etica, ogni fase di crescita della ragazza. Quando poi la favola si scontra con la realtà l’equilibrio si spezza e tutto crolla. Rino viene arrestato e Ada viene salvata, ma nello stesso tempo condannata. Condannata ad una vita diversa dall’unica nota, una vita nella quale manca la sua fortezza, il suo rifugio, il suo amore, anche se oscuro e malato. Ada diventa una donna la cui unica dimensione, nonostante ogni sforzo per cambiare le cose, è l’attesa, l’attesa di incontrare di nuovo il suo Rino. Amore, reclusione e dipendenza sono i tre cardini intorno ai quali muove una vicenda difficile da raccontare e da leggere. Molte pagine sono taglienti, come un coltello che incide la carne, e fanno male. Non si capisce più quali siano le regole, non si sa dove finisca l’amore e dove cominci la dipendenza, non si ha più la certezza di cosa significhi davvero amare. La Trevisan è bravissima nell’affrontare un tema così articolato e complesso senza indulgere in descrizioni esplicite e senza cadere nell’eccesso, così come estremamente apprezzabile è la sua capacità di astensione da qualsiasi giudizio, insieme all’abilità di sfidare le convenzioni con estrema tenerezza.