
(Sheldon: Un momento, sebbene sia a mio agio quando parlo di scienza, non so se saprei accendere l'interesse di una scolaresca. Cerco su Google. Howard: E cosa di preciso vorresti cercare? Sheldon: “Come posso fare eccitare una ragazzina di 12 anni”. Howard e Leonard: No!). Il successo di The Big Bang Theory si potrebbe sintetizzare tutto in questo breve scambio di battute. Episodi brevi, poche ambientazioni fisse (persino la Lego ha messo in commercio una riproduzione del salotto di Sheldon, Leonard & co) e una trama basata sulle interazioni tra un gruppetto di giovani scienziati (geni nelle loro discipline ma del tutto incapaci a gestire le relazioni umani) e Penny, aspirante attrice che si trasferisce nell’appartamento di fronte. Al netto delle gag e delle battute giocate sulla scienza e sulla quotidianità dei geek, The Big Bang Theory funziona per la capacità di gestire l’arco di trasformazione dei personaggi sul lungo tempo (ogni episodio ha una micro-trama autoconclusiva, ma si muove su un arco narrativo più grande), in particolare per quanto riguarda l’evoluzione di Sheldon: suo malgrado costretto a mettersi in relazione con Penny, con il mondo che la circonda; e soprattutto con Amy, sua fidanzata (alla quale sottopone un “contratto tra fidanzati”, oggetto di continue contese giuridiche e sentimentali)… Il revival di Gilmore Girls, prodotto da Netflix nel 2016, si inserisce in quella vasta operazione di recupero dei vecchi successi della serialità televisiva a beneficio degli storici fan (ma soprattutto dei potenziali nuovi telespettatori). In quest’ottica ha senso valutare la maggiore aderenza alla realtà del revival rispetto alla serie originale. I dialoghi sono sempre veloci e brillanti (Lorelai: Sookie, è uno scherzo? Non vai all'altare con questa musica: è deprimente! Sookie: È la Fitzgerald! Lorelai: È morbosa: parla di una donna che non sa far funzionare il suo rapporto, che ha una vita colma di vuoto, dolore e rimpianto. Sookie: Ah, ma chi sta a sentire le parole?), l’ambientazione principale è sempre la quasi fiabesca Stars Hollow, ma i personaggi principali – Rory innanzitutto, che si scopre (lei, che aveva fatto dell’istruzione e del giornalismo la sua ragion d’essere) senza lavoro, senza fidanzato e con una certa inclinazione all’alcol nelle pause di lavoro – si scoprono più grandi, o più vecchi, con tutto lo strascico di fallimenti, consapevolezze o lutti che l’età porta con sé…
Addicted. Serie tv e dipendenze è un libretto di saggi (cinque saggi in circa 130 pagine) che esplora quel rapporto sempre più evidenze di, letteralmente, dipendenza che si instaura tra i fan e le serie televisive. Molto più che per quanto riguarda il cinema, in questi anni si è assistito a una progressiva “fidelizzazione” degli spettatori rispetto alla propria serie televisiva preferita: maratone prima delle premiere, nottate svegli per guardare in contemporanea con gli Stati Uniti le nuove puntate di Game of Thrones, pagine FB, forum (che è la madre di Jon Snow?!), puntate rubate e messe online prima della messa in onda… come si spiega questa dipendenza? Cosa è cambiato nei prodotti televisivi? Come si sono trasformati da prodotti di intrattenimento a anche – e soprattutto – produzioni di culto? A queste e altre domande cercano di rispondere gli autori, attraverso delle incursioni nel rapporto tra serie TV e grande schermo, nella costruzione delle colonne sonore, nelle strategie narrative tra finali alternativi e gradi di dipendenza. La trattazione è ovviamente parziale ma soddisferà quei fan che – essendo appunto compulsivi e, come i protagonisti di The Big Bang Theory, dei veri nerd – sono alla ricerca di un’analisi sulle scelte che condizionalo la struttura, il budget e la produzione delle serie televisive. Tra quelle trattate: Gomorra, Twin Peaks, How I Met Your Mother, Stranger Things e molte altre. Insomma, ce n’è per tutti i gusti. Tra l’altro, la grafica del volumetto è molto curata, intuitiva e accativante, cosa che non guasta. Consigliato (solo per i veri nerd, come detto sopra).