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Ai piani bassi

Ai piani bassi

Margaret è nata nel 1907 a Hove, seconda di sette figli. Il suo primo ricordo è che gli altri bambini sembrano tutti più ricchi. Però i genitori vogliono loro un gran bene. Ogni domenica il papà regala loro un giornalino e un sacchetto di dolci. Il giornalino con i disegni in bianco e nero costa mezzo penny, quello a colori un penny. A volte si chiede come faccia, specialmente quand’è senza lavoro e in casa non entra neanche un soldo. Suo padre è imbianchino e decoratore. Una specie di tuttofare, in realtà. Ripara i tetti, intonaca i muri: quasi tutto, insomma, anche se il suo vero mestiere è dipingere pareti e incollare tappezzerie. Ma d’inverno, nel quartiere dove abitano, non si batte chiodo. Nessuno vuole farsi ristrutturare la casa nei mesi freddi: lavori all’esterno non se ne possono fare, e rimettere a nuovo gli interni è una bella rogna. Perciò d’inverno è più dura. Sua madre fa la donna delle pulizie, lavora dalle otto del mattino alle sei di sera per due scellini al giorno. A volte torna a casa con qualche piccolo tesoro: una ciotola di sugo d’arrosto, una mezza pagnotta, un po’ di burro, una scodella di zuppa. Fosse per lei, non accetterebbe mai niente. Detesta la carità. Loro invece sono contenti come pasque, e quando torna con qualcosa in mano corrono fuori a vedere cos’è. Quando Margaret e i suoi fratelli sono bambini infatti non esiste il sussidio di disoccupazione, e quindi questa idiosincrasia per la carità può sembrare quantomeno singolare, ma in effetti ogni cosa che ti viene data in quella situazione non è altro che una specie di elemosina. Se hanno solo un paio di scarpe ciascuno, e per giunta rotte, la madre va in comune e chiede qualche soldo in più. Le tocca rispondere a un’infinità di domande, e si sente guardata con disgusto, solo perché non ha abbastanza soldi per tirare avanti. All’epoca trovare un posto per vivere è diverso da oggi: basta guardarsi intorno. Per strada è pieno di cartelli che dicono «affittasi stanze». Quando sono in bolletta nera si accontentano di una o due camere in subaffitto, ma quando il papà lavora vanno a cercare un appartamento da condividere. Una casa tutta loro non l’hanno mai avuta. All’epoca non molti possono permettersi una casa intera. Comprarsela, poi, neanche per sogno! Margaret non capisce perché la mamma seguiti a fare bambini, visto che per loro è già così dura, e ricorda la sua rabbia per i commenti delle zitelle per cui lavora che continuano a dirle di non fare più figli, che non può permetterseli. Anche Margaret le chiede: «Perché hai tanti bambini? È difficile fare i bambini?» E lei: «No, no, per niente! È facile come bere un bicchier d’acqua!» Ma per i poveri fare bambini è l’unico piacere. Non costa niente, almeno nel momento in cui metti in cantiere il bambino. Certo, piú avanti le spese ci sono, ma quelli come Margaret e i suoi non sono abituati a guardare avanti. Non ne hanno il coraggio. Vivere alla giornata è già abbastanza. Nessuno si preoccupa di controllare le nascite. Sarà un’eredità dell’epoca vittoriana, ma l’idea è che le famiglie debbano essere numerose. Più bambini hai, più si pensa che tu faccia il tuo dovere di buon cristiano. Non che la Chiesa conti un granché nella vita dei genitori di Margaret, intendiamoci. Probabilmente non hanno nemmeno il tempo di pensarci; o meglio, forse il tempo ce l’hanno, ma manca loro la voglia. Alcuni dei figli non sono neanche battezzati. Margaret, per esempio, non lo è…

La vita è una questione di nascita, di fortuna, di livelli e di piani. Poi certo, uno ci deve mettere anche del suo, che la manna dal cielo non è che cada sempre, anzi, ma c’è chi ha la strada spianata sin dall’inizio e chi si trova subito ad affrontare il passo del Gavia con una bicicletta sgonfia e un rimorchio carico di pietre da trascinare su fino in cima. Sono tutte cose collegate, i piani e i livelli. Se sei nell’antica Roma e il tuo palazzo prende fuoco se vivi al piano terra ti salvi, se sei all’attico di un’insula con le scale malferme di legno fradicio è più probabile che ti capiti di morire usto come Giovanna d’Arco, senza nemmeno avere la consolazione di poter dire di aver sentito un coro di voci che neppure quelle dell’Antoniano. Se il “Titanic” su cui stai viaggiando ha deciso di fare un incontro ravvicinato del terzo tipo con un iceberg se sei vicino alla scialuppa potrai raccontarlo come un simpatico aneddoto, altrimenti fai la fine di Di Caprio, e poi ti tocca mugolare per ore, fare la faccia infreddolita, camminare nella steppa tipo Popoff e litigare con un orso – e soprattutto ringraziare il cielo che non abbiano candidato l’attore migliore dell’anno, ossia il bambino di Room, tratto dal signor romanzo di Emma Donoghue Stanza, letto, armadio, specchio – per vincere l’Oscar, e nemmeno per il tuo ruolo migliore (Julianne Moore docet). Ora invece siamo abituati a considerare i piani bassi dei palazzi come quelli meno prestigiosi, e gli ultimi come il massimo splendore. Non hai nessuno che ti cammina sopra, niente vicini che spostano i mobili alle due di notte, la vista è migliore. Oddio, se stai a Corviale non cambia di molto, ma facciamo finta: d’altronde quello doveva essere un esperimento à la Le Corbusier ed è venuto fuori un ecomostro… E anche nelle aristocratiche magioni dell’Inghilterra del primo Novecento la situazione è questa: ai piani alti vivono i ricchi, in quelli bassi la servitù. La plebe. I poveri. Che spesso e volentieri sanno mandare avanti la baracca molto meglio della cosiddetta classe dirigente, impomatata ma senza grembiulini e cuffiette. Margaret Powell è nata nel 1907 a Hove, in Inghilterra. A quattordici anni ha ottenuto un posto nella lavanderia di un albergo, e l’anno dopo è stata assunta come cuoca in una residenza londinese. Nel 1968 – ma la lotta di classe qui è a colpi di teiere – è stato pubblicato il suo primo libro di memorie, per l’appunto Ai piani bassi, che Einaudi riedita quattro anni fa, e che è stato un immediato successo. Facile a capirsi il perché: è scritto bene, divertente, semplice, chiaro, fluido, ironico, sferzante, fresco, sarcastico, niente affatto pretenzioso, vivido, intimo, variegato, leggero, appassionante, narrato in una prima persona di non comune immediatezza. È erede della grande tradizione letteraria prosperata sotto il vessillo della Union Jack, in primis l’irraggiungibile Dickens. È morta nel 1984, lasciando un cospicuo patrimonio. Una self made woman di rara arguzia che sembra di conoscere attraverso le pagine, che dispiace di non aver incontrato di persona, perché avrebbe tagliato i panni addosso a mezzo mondo di ipocriti meglio di un sarto (o di Oscar Wilde), e che ha ispirato un capolavoro televisivo British che di più non si può, ovvero Downton Abbey, scontro di civiltà tra noi e loro, mondo di sopra e mondo di sotto, aristocrazia e popolo, sullo sfondo di baldacchini, porcellane, tragedie, miserie, vizi pubblici, virtù private e viceversa, con, tra gli altri, Maggie Smith e Shirley MacLaine: what else?