
Roma. Anni sessanta e settanta. 170 ricette di buon gusto romano. 11 antipasti dalle “animelle veggetali” ai “nervetti” ai “supprì ar telefono”. 12 minestre da “er brodo de ciccia” alla “pasta e facioli”. 25 asciutte dai “bucatini a la matriciana” agli “schiaffoni casarecci”. Poi le carni per tipologia: abbacchio, bove, vitella, maiale, con la caccia a parte (faggiano, quaje, uccelletti) e tante varie miste (“osso buco”, “fegheto a la veneta”, “mozzarella in carozza”, “pollo novello a la diavola”, trippa, frittarello, “porpette casarecce”, “carciofoli a la giudia”). 19 di pesce, 9 di verdure, per finire con “li dorci” (ben 23). Piena era ed è la consapevolezza che non si mangia bene senza bere abbinando il giusto attraverso un’accorta motivata scelta fra tutte le regioni italiane. Con puro accento romanesco la sora Vera introduce brevemente ogni ricetta, precisa le quantità per sei persone, dettaglia i passaggi per la preparazione. Di ognuna veniamo a sapere pure le calorie delle singole porzioni: “er pasticcio de maccheroni” fa il massimo, 1940; il brodo il minimo, 100; del vino non si sa, purtroppo, vero è che dipende dalla quantità di bicchieri bevuti, molto varia fra bimbi e adulti, donne e uomini, astemi e avvinazzati. Sora Vera chiacchiera come se fosse tra amiche commari, la premessa del libro è nel suo salottino, spiega che bisogna mangiare adagio, la prima digestione avviene in bocca (con l’enzima amilasi o ptialina) che trasforma gli amidi in zuccheri, la seconda nello stomaco che trasforma tutto in una “porpetta” (da cui forse il titolo), la terza nell’intestino tenue con l’aiuto di fegato e pancreas. Anche le varie parti hanno dialoghi esplicativi popolani (sempre divertenti), dal macellaio come durante una scampagnata, la vera storia dei cappelletti come le istruzioni per la villeggiatura, le riflessioni dei maschi ai remi e le continue citazioni di Artusi…
Giggi Fazi (Roma, 1900–1979) fu un notissimo ristoratore e chef. Ideò e fu il primo gestore dell’Hostaria Romana di via del Boccaccio (esiste ancora oggi), conquistando schiere di estimatori e di clienti illustri. Dopo alcuni anni lasciò il locale a due coniugi fidati collaboratori e si trasferì prima in via Sallustiana poi nel celebre locale di via Lucullo (frequentatissimo durante il periodo della Dolce Vita), aprendo locali anche a Frascati e a Milano. Nel 1971 per una casa editrice milanese diede alle stampe un delizioso volume di ricette che riprendeva lo stile del suo prezioso Menu à la carte, presentazioni dei piatti attraverso dialoghi confidenziali, illustrazioni colorate, in copertina caricatura del proprietario con un grande stemma della Lazio, presente anche sulle stoviglie (era un grande tifoso, pure dirigente della sezione giovanile). Il figlio del primo editore romano contattato conservò le bozze (per uso privato), acquistò il volume e decide poi di ripresentarlo ai lettori di tutt’Italia. Il testo è quello originale, anche i termini desueti e i riferimenti ad alcuni ingredienti ormai non facilmente reperibili, con una chiara prefazione di Enrico Mattei che inizia dalla bassa statura e dall’alta simpatia di Fazzi (“nano benefattore”). L’ampliato sintetico glossarietto consente di orizzontarsi rispetto alle espressioni dialettali più strette. Colpisce il capitolo “La cantina mia”, qui introdotto dal compianto studioso ed enologo Gian Paolo Bonani, capace di ricordare, giocando sul cognome, che Fazzi “era ammagliato dalle bottiglie verde scuro e anforate del verdicchio di Jesi Fazi”. Quasi cinquanta pagine dedicate ai vini, ancora con dialoghi che illustrano tante tipologie regione per regione, assolutamente inconsueto per quei tempi (e ovviamente assenti nell’Artusi).