
Vertigo [La donna che visse due volte], del 1958, è il più inestricabile e meglio riuscito tra i film di Alfred Hitchcock ed è stato preceduto da un gemello, La finestra sul cortile [Rear Window], del 1954. Le coincidenze fra i due capolavori sono tali da non poter far pensare ad una casualità: lo stesso protagonista, James Stewart, affiancato da una conturbante presenza femminile, una donna bellissima e bionda in entrambi i film, Kim Novak nel primo e Grace Kelly nel secondo; un limite oggettivo, un impedimento, per entrambi i protagonisti, ora l’acrofobia che porta alle vertigini in uno, ora la gamba ingessata nell’altro. C’è poi in comune il mistero di una morte e l’accanita caccia alla verità che coinvolge e stravolge il protagonista, in un lungo cammino di redenzione e trasformazione. I due film hanno poi sviluppo simili, ma molto differenti, se non contrapposti: tragico il finale di Vertigo, al termine di una serie di colpi di scena; riappacificante ne La finestra sul cortile...
Il volumetto si presenta suddiviso in capitoli raccolti nel tempo, da leggere in successione o, volendo, anche separatamente; ogni capitolo è la somma di una serie di cartigli e di paginette che sembrano estrapolate dal tempo e spaziano dal cinema degli anni ’50, alla metafisica di tre diversi continenti, l’Europa, l’America e l’Asia (India). Dopo un primo approccio strutturale che mira a catalogare e spiegare strutture similari e strutture divergenti fra i due film di Hitchcock, segue un’analisi molto più profonda curvata verso la metafisica: la lettura vedantica de La finestra sul cortile e quella ‘spirituale’ ed onirica di Vertigo, dove ai figmenta seguono i fosfeni, aprono la strada ad una critica più ampia del fenomeno cinema. I film di Hitchcock sono l’oggetto ed il pretesto per una disamina che comprende una serie di riflessioni ontologiche dalla cinepresa a Kafka. L’ultimo capitolo, infatti, quello che dà il titolo a tutto il libro, attira l’attenzione del lettore sulla pregnanza cinematografica di Amerika – Il disperso, romanzo incompiuto di Franz Kafka che, più di tutti, riesce a spiegare la tecnica e l’intenzione del cinema. La lezione più innovativa di questo breve saggio, quella dello studioso ormai maturo, consiste nell’invito ad abbandonare un’unica strada di lettura della realtà, per affidarsi ad un aiuto esterno, capace di mostrarci quanto non riusciamo a vedere perché troppo coinvolti: è la funzione del cinema, se ci si pensa, che in modo totalizzante ci fa sprofondare in una storia che ci fornisce la chiave di comprensione di quanto abbiamo più vicino, più profondo. Come per tutti i libri di Roberto Calasso la lettura può avvenire per strati o semplicemente in superficie: la tessitura è tuttavia talmente densa che le poco più di 130 pagine richiedono diversi altri libri, riferimenti culturali, artistici e filmici, da estrapolare dall’universo scibile, per poterle veramente apprezzare. È un vero esercizio culturale a più dimensioni.