
Steso sopra una barella spinale Spencer, quasi in volo lungo i corridoi del Pronto Soccorso di Long Island, presso il Jewish Medical Center, guardo la fossettina affascinate di una tale dottoressa Juanita Maria Sanchez e penso alla mia condizione, che è perfettamente orizzontale. Più orizzontale di quando mi stendevo sul cemento del tetto a guardare le stelle. Prima dell’incidente, intendo. E io, su quel diavolo di cavallo di ferro non ci dovevo nemmeno salire, ché glielo avevo detto ai ragazzi che era meglio trovarsi in centro. Invece no, mi sono trovato sul sedile posteriore mentre i ragazzi disquisivano della nostra lingua madre, l’algonchino, e di chi sia più bianco o più nero tra Mike Tyson (nero), Michael Jordan (bianco), Kareem Abdul-Jabbar (indiscutibilmente nero) e tanti altri. Poi il botto e, a quanto pare, il danno peggiore me lo ha fatto il tomahawk che mi ero portato appresso… Mi presento: sono Henry Zimmerman e l’FBI mi ha sottratto il mio cane. Dal giorno in cui un fascio di luce me lo ha prima rapito e poi restituito, e dopo che due strani figuri si sono presentati alla mia porta per chiedermi in prestito Buddy, niente è stato come prima. Buddy, una volta tornato a casa, non è stato più lo stesso e anche io ho cominciato a partecipare a quelle sconclusionate riunioni dalla signora Jemming a parlare di Rettiliani… Dunque c’era questo giovanotto delle sterminate pianure del Midwest, un certo Marvin, che viveva con i suoi, contadini con campi e mucche. E quando la fattoria comincia a marcare male e il padre si appende con la corda al collo, il nostro Marvin se ne va prima a New York e poi decide che Lo zio Sam ha bisogno di lui. E lo Zio, per ricompensarlo, lo spedisce a combattere le forze del Male in Afghanistan. Finché il buon Marvin non torna a casa con qualche pezzo in meno e una medaglia al valore, che però non gli permette di uscire dallo stato catatonico nel quale è finito…
Alessandro Marandini, da quanto si evince nella postazione di Piera Mattei e dalle sue brevi note biografiche, ha vissuto per lunghi periodi all’estero, soggiornando in Francia, Inghilterra, Germania e Spagna. Curiosamente però non è mai stato negli Stati Uniti dove la maggioranza di questi racconti si svolge, ad eccezione di Fine della notte ambientato a Londra e ispirato alla triste storia della cantante Amy Winehouse. Eppure gli scenari sono credibili, particolareggiati, le pagine odorano di nuovo. Di certo ciò che contraddistingue questi sette racconti sono lo stile molto particolare ‒ una sorta di slang fatto di lunghissimi periodi e digressioni più simili a un discorso parlato che una narrazione ‒ e una peculiarità delle situazioni, prospettive davvero insolite, che sono forse il vero punto di forza di questa raccolta. Un nativo americano steso su di una barella; un vecchio, il suo cane e l’FBI, un ragazzino balbuziente e il suo sosia. Va detto però che per capire questi racconti bisogna arrivare non solo alla fine della raccolta, ma occorre leggere la voce dell’autore, il quale dedica un piccolo paragrafo finale per spiegare la genesi di ogni racconto e spiega qui l’idea dell’ambientazione statunitense e che lui definisce “colonizzazione dell’immaginario”. Gli spunti e i riferimenti, se non colti da questa sezione, andrebbero smarriti o sarebbero difficili da trovare. Stile particolare, si diceva, ma forse troppo omogeneo perché simile per ogni racconto con il risultato che le storie sembrano collegarsi tra loro in un unico plot narrativo. Si stempera così la particolarità del soggetto, che si mescola a quello precedente e al successivo ed è un peccato, perché la scrittura è di livello notevole e la struttura dei racconti insolita rispetto alla media.