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America non torna più

America non torna più

Un mal di schiena che non passa, un male incurabile che forse ha attaccato anche i reni e la vescica, una visita medica da un dottore bravo, raccomandato da parenti della moglie, la sensazione fortissima che saranno solo brutte notizie e che forse proprio lui che nella vita segnava rigori da bomber anche sul campetto di calcio dove giocava suo figlio ragazzino, che aveva sempre “vinto” tutto a modo suo, che aveva avuto la fortuna di trovare la donna della propria vita (a differenza di suo padre a cui invece questa sorte non era toccata, ma che in compenso aveva fatto il pieno di medaglie di guerra ed era passato da un continente all’altro per inseguire i propri sogni), lui che ingaggiava battaglie di principio con suo figlio sognatore vincendole sempre a mani bassi, ora lui probabilmente a poco più di cinquanta anni avrebbe avuto bisogno degli altri anche per riuscire a rasarsi o fare qualche passo. Non le sa ancora tutte queste cose, lui, mentre è seduto in macchina per raggiungere la clinica dove farà tutti gli accertamenti, ma le sente, e quindi ride esageratamente a una affermazione sciocca e superficiale di suo figlio, e ascolta le parole di sua moglie come se arrivassero da uno spazio siderale. Lui, proprio lui, che aveva sempre fatto le scelte più giuste e avuto gli amici più fighi, compreso “quell’America” i cui aneddoti e le cui storie erano stati una sorta di leit motiv nella vita di suo figlio. “Alcuni la chiamano sfiga”…

Ci sono stati momenti, pagine di America non torna più in cui avrei voluto fermarmi e chiudere il libro. Volevo farlo perché mi sentivo una estranea che sbirciava dalla serratura la vita degli altri, che assisteva a sconfitte morali personali e a sconfitte fisiche personali che non mi appartenevano e riguardavano persone che non conoscevo, che non avevo mai visto. Non era il racconto di un amico o di un parente e io mi sentivo una intrusa, una ficcanaso, una impicciona. Ma poi ho capito. Andando avanti con la lettura tutto mi è apparso più chiaro e del tutto sensato: se mi sentivo così era perché quello che stavo leggendo non era un diario privato e non era neppure una autobiografia banale e autoreferenziale, quello che stavo leggendo era un’opera letteraria e io mi sentivo così perché quella era arte e aveva il potere di far scattare la sun pathos come quando si guarda la Crocifissione di van Dick nella cattedrale di Gand e ti viene inspiegabilmente da piangere, come quando guardi I girasoli di van Gogh e rimani ipnotizzata pur sapendo che alla fine sono solo dei fiori, come quando assisti alla messa in scena di Casa di bambola di Ibsen e poi hai voglia di urlare le peggio cose al primo uomo che passa. Insomma America non torna più non può e non deve essere definito “romanzo autobiografico” perché non lo è, e non lo è nella misura in cui ogni lettore vi trova stralci della propria vita, riferimenti esistenziali, passaggi obbligati che sono capitati a tutti, pur se in forma e dimensioni differenti. Giulio Perrone, inoltre, ha imparato bene che rumore fanno le parole quando vengono scritte. Sa bene che è qualcosa di molto diverso dal solo pensarle e che gli avverbi, se usati con capacità, diventano specchi riflettenti di una varietà non misurabile di stati d’animo. Alessandro Baricco ha tenuto decine di lezioni sull’uso della punteggiatura da immaginare come taglio cinematografico, Giulio Perrone va oltre e la usa come la sospensione della lirica giapponese, in un tempo indefinito e indefinibile che corre per tutto il suo romanzo. Talento.