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Amore e ostacoli

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È un’estate africana del 1983. Un ragazzo serbo di sedici anni – “l’età in cui la paura innesca l’ispirazione” – è in soggiorno con la sua famiglia a Kinshasa, poiché il padre è un diplomatico, impiegato nei bassi ranghi del corpo diplomatico in Zaire, in qualità di incaricato alla comunicazione. Nella “sventura dell’adolescenza”, il giovane si rifugia nei libri: “leggevo compulsivamente, affacciandomi solo di rado alla superficie della realtà terrena per prendere una fetida boccata d’esistenza altrui […] era solo nello spazio immaginario della letteratura che mi sentivo protetto e a mio agio”. A Sarajevo ha lasciato un’amica: Azra, un’accanita lettrice come lui e a lei ha promesso di scrivere un diario, in cui annotarle e raccontarle quei mesi estivi di lontananza fisica. A Kinshasa incontra Spinelli, un vicino di casa dedito al fumo, che diventa il suo porto sicuro per sfuggire alla noia di quei giorni: l’uomo racconta storie assurde, inventate; è come un libro in carne e ossa, da ascoltare e non da leggere. Un passatempo per non vivere il tempo o una via alternativa a quella noiosamente solita e giusta. Spinelli soprannomina il suo giovane amico: Archibucio. A loro due si aggiunge anche Natalie, detta “Bella Vongola”: diventano, per un po’, inseparabili, come tre personaggi di un romanzo di avventura…

Aleksandar Hemon è un noto scrittore di origini bosniache (dal 1992 vive in America), tra i suoi titoli ricordiamo: Spie di Dio e Il libro delle mie vite. Con Amore e ostacoli ci regala un vero e proprio romanzo di formazione in cui il giovane protagonista – volutamente senza nome, come a dire con un’identità ancora indefinibile – cerca d’imparare a districarsi nel fango dell’esistenza, della cui lordura ha non poco timore, preferendo di gran lunga la purezza della finzione letteraria (della poesia), l’intangibilità al contatto passionale con la vita, il cielo alla terra. Eppure, a un certo punto, anche gli orizzonti più limpidi paiono pronti a crollare: “sapevamo – ma non volevamo sapere – quello che stava per succedere, e il cielo gravava su di noi come in un cartone animato l’ombra di un piano che precipita”. Già solo lo spettro, il presagio, della guerra in Bosnia è un cielo che si rivela pronto a crollare sui suoi stessi uomini, un cielo tirato giù dai suoi stessi uomini. E non c’è evasione che regga se non il canto della parola, l’eco della sua bellezza che sta per essere, tuttavia, strozzato. È in quell’attimo di universale dolore che il ragazzo senza nome assume un’identità forte e piena, impara ad essere, a fare davvero i conti con la vita e con il suo contrario: la morte come assenza, lontananza di un’anima, da un’anima, da una patria.