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Amore Mesopotamico

Amore Mesopotamico

Nei paesi lacerati e sofferenti, frammentati da poteri coloniali e repressivi, spesso nasce un’identità sostanziale fra voce poetica e voce politica; fra il corpo che scrive, o pronuncia, la parola e il corpo fisico del paese, la sua cartina geografica, si stabilisce un rapporto di coincidenza: sono “come le città assediate da tutti i lati… come il mio paese diviso in quattro parti”. È il Kurdistan, è il poeta. “Sono Rojava, sono il luogo dove la storia è scritta”. Il corpo si fa luogo, pagina su cui scrivere i segni della storia, a tratti eroici, a tratti sofferenti. La geografia non è un fattore esterno, ma liquida penetra dentro al soggetto, lo invade: “I fiumi scorrono dentro di me: / l’entusiasmo dell’Eufrate porta vittorie / il Tigri è sempre furioso… il tempo è vecchio come la Mesopotamia”. Anche l’amore assume i contorni di una costruzione spaziale, diventa racconto geografico, nome di un incontro da scrivere sulla mappa: “credimi questo amore è l’inizio di una nuova città”. L’io si spazializza, travalica i confini del sé e permea dei suoi sentimenti le superfici esterne; lo spazio allo stesso tempo si interiorizza e penetra con le sue ferite storiche dentro ai confini dell’io…

Torna alla mente il “cuore” di Ungaretti, fra tutti “il paese più straziato”. Guerra e sofferenza spingono la poesia a sagomare l’individuo su uno sfondo di paesaggio, e viceversa. “C’è un luogo poetico in tutte le persone” dice, Dogan Akçali, che porta dentro di sé l’orgoglio e la sofferenza di un paesaggio, più che di un popolo. Del resto il titolo della raccolta già fornisce un connotato geografico al sentimento amoroso. Il suo dire poetico nasce in italiano, lingua d’esilio, ed è perciò una sorta di sforzo di traduzione: nel senso di traghettamento della sofferenza della sua geografia in una lingua diversa: “portare qui quel vento mesopotamico / che è la tua testimonianza”. Oltrepassare un linguaggio, con lo sguardo lacerato dal dolore e dalla separazione, denudato dei propri sogni: “i miei sogni sono stati appesi a una linea di confine”. La poesia di Akçali dona all’italiano una freschezza, un’incantata ingenuità infantile, che risale al piacere di nominare le cose: l’amore invita a regalare parole come mazzi di rose, a “dare un giardino di frasi”all’amata, nell’amara consapevolezza della distanza incolmabile fra i corpi: “siamo come due giorni lontani”. Ma entra nella parola anche la Storia, millenaria e presente: il leggendario Kawa, fabbro ribelle e liberatore, ma anche Kobane, città resistente contro l’invasore, città della rivoluzione. Entra la distruzione delle città curde compiuta dall’esercito turco nel 2016, entra il dissidio fra l’andare via o il restare e combattere. Dice Akçali che “la poesia è stata per [lui] la prima esperienza di vera libertà”. Anche qui la poesia si fa spazio, luogo d’esperienza di un valore politico ed etico insieme, cornice di una voce e di un’intimità che aspira a farsi paesaggio.