
Demetrio torna nella sua casa d’infanzia, tra le colline piemontesi. Suo padre è intento a curare un mandorlo: è malato, non darà frutti, ma cerca comunque di innestarlo. Il mandorlo... Jahwè domanda a Geremia cosa vede, Geremia risponde che vede un ramo di mandorlo. Jahwè lo rassicura: ha visto bene perché Egli vigila sulla parola per attuarla. Dopo aver aiutato il padre, Demetrio va in camera sua. Tornare in paese gli provoca sempre un senso di disagio. Il paese è il luogo dove si è consumata la tragedia del suicidio. Il suicidio è sempre tragico, perché al dolore della morte prematura si aggiunge, come una macchia indelebile, la colpa dell’auto- imposizione. Ma se a suicidarsi è un bambino di undici anni, allora la macchia s’ingigantisce e diventa un abisso nero nell’animo di chi resta, un abisso che risucchia e che tutto fagocita. Per un’associazione mentale non meglio giustificata, Demetrio pensa a Patrick e al contempo riflette su Geremia, sul libro che leggeva mentre Patrick moriva. Questa inusuale associazione e il pensiero di Patrick, che ormai l’accompagna ovunque e in ogni momento, l’hanno portato a scrivere questo libro. Dopo aver osservato dalla finestra il campanile, apre gli scatoloni impolverati e tira fuori una cassetta TDK Chrome 90 minuti, dove un Demetrio diciassettenne - nel quale il Demetrio di oggi non riesce a identificarsi – ha registrato delle canzoni in onore e in memoria di Patrick. Inserisce la cassettina e il nastro rivela le prime note di Jeremy dei Pearl Jam. La cassettina riporta la dicitura sibillina “L’ADOLESCENZA È L’APPRENDIMENTO DEL LUTTO”. Fino ai diciassette anni, Demetrio non aveva mai pensato alla morte; dopo Patrick tutto è cambiato, tanto che gli verrebbe da dire “sostituendo il cliché, che non è il primo amore che non si scorda mai, ma la prima morte: la prima persona morta è quella che amiamo”...
Come definire questo libro? Un romanzo, un memoir, un saggio, un testo di esegesi e/o filologia biblica, uno scritto di speculazioni filosofiche e teologiche, un esperimento di metaletteratura? Probabilmente, Anatomia di un profeta è tutto questo e anche di più e immergervisi costituisce un’esperienza di lettura fuori dall’ordinario. Dall’impaginazione alla suddivisione del testo (che nell’ultimo capitolo ricorda la liturgia delle ore), dall’organizzazione grafica con echi futuristi, se non addirittura apollinairiani con vaghi richiami ai suoi Calligrammes (1918), alle note a piè di pagina che spesso costituiscono blocchi narrativi a sé stanti (un omaggio decisamente intenzionale a David F. Wallace) o che contengono riflessioni dell’autore-narratore, il quale si rivolge direttamente al lettore – una sorta di “rottura della quarta parete” di carta e inchiostro. Bisogna riconoscere la raffinatezza di questo prodotto editoriale, senza alcun dubbio ben confezionato; ad ogni modo, quella che potrebbe apparire come una semplice giocosità, come una frivola volontà di baloccarsi con il mezzo stampa attraverso bizzarre impaginazioni, è in realtà un modo funzionale per tradurre sulla carta stampata la complessità del tema trattato e la profondità della riflessione che soggiace al testo. La carne sul fuoco è tanta, davvero. Per sintetizzare e chiarificare le cose, si può affermare che il cuore pulsante del testo è l’io narrante attorno al quale si sviluppano tre argomenti principali: il doloroso ricordo d’infanzia incentrato sul piccolo Patrick, la figura del profeta veterotestamentario Geremia e il tema del suicidio. Ora, questi tre temi vengono fatti intrecciare tra loro magistralmente, con i tre nuclei tematici – afferenti rispettivamente al ricordo, alla teologia e alla dimensione psichico-speculativa – posti sullo stesso piano, giustapposti; un po’ come accade con quadri cubisti, dove le differenti dimensioni vengono messe sullo stesso piano per offrire in un solo colpo d’occhio tutta la complessità del reale. Disturbante, ma efficace. Non è sempre facile procedere con la lettura, alcune parti sono una vera morsa allo stomaco. Infatti, non c’è mai censura, tuttavia, la tragicità del contenuto è spesso sublimata dalla forma, sia essa declinata in endecasillabi, calligrammi, versi sciolti, il che permette di alleviare il dramma della condizione umana ed elevarlo ad arte attraverso la scrittura.