
È vero, può sembrare una storia già raccontata e anche più volte, ma tutte le storie hanno mille facce, tanto che se ne può trovare sempre una del tutto inedita. E questo succede anche per un artista tra i più celebri di sempre come Andy Warhol. La sua storia inizia a Mikovà, cittadina di origine dei genitori, ai piedi dei Carpazi, proprio al confine tra la Slovacchia (a cui appartiene), la Polonia e l’Ucraina. Sembra un posto lontanissimo e sperduto: beh, forse sperduto sì, 500 anime appena, distribuite in case infilate lungo i bordi di una strada stretta e tortuosa; ma non lontanissimo, visto che dista da Milano meno di Palermo. Warhol nasce il 6 agosto 1928 a Pittsburgh, da un matrimonio combinato (la madre Julia pianse a lungo per questo), i genitori migranti, con una grande differenza di età tra loro. Non è proprio un periodo fortunato: la povertà dilaga e la Grande Depressione è alle porte. Presenta subito un carattere estremamente sensibile: il primo giorno di scuola il fratello Paul lo trova che piange perché picchiato da una compagna di classe. Non è dolore fisico, ma psicologico e continua a piangere anche a casa, tanto che da quel giorno non vuole più andare a scuola e sviluppa una sorta di fobia. Da adolescente frequenta la Chiesa bizantina e continua a farlo anche una volta raggiunto il successo: siede in fondo, negli ultimi banchi vuoti, come fanno i turisti e i non credenti. Non è escluso però che i ritratti dei santi, visti in chiesa, possano aver influenzato le sue opere, soprattutto quelle raffiguranti i divi della sua epoca, d’altronde proprio la parola “divo” viene dal latino “divus”, cioè “divino”...
“Tutto c’entra con tutto”, scrive Francesco D’Isa nella presentazione del volume di Enrico Pitzianti, indicando come la vita del grande artista sia intrecciata straordinariamente con un numero incredibile di temi, fatti, personaggi, prodotti, situazioni. Non deve sorprenderci, quindi, che nonostante tutto quello che si sa ed è stato scritto su Andy Warhol, ci sia ancora spazio per approfondire alcuni aspetti che non conoscevamo. Addirittura da farne “un’inchiesta”, una ricerca sul “cosa c’è dietro” a questa vita breve, tormentata e piena di traumi, con sofferenze infantili, violenza e solitudine e anche qui, temi estremamente attuali, come quello delle migrazioni. Rispetto ad alcuni argomenti affrontati viene da chiedersi: leggendo questo libro ci si innamora ulteriormente di Andy Warhol o si comincia a vederlo sotto una luce completamente diversa? Si conferma l’ammirazione per l’artista, oppure si comincia a pensare che sia stato solo un’icona, una moda universalmente conosciuta, perpetrata nel tempo, fors’anche una sorta di “bluff”? Domande molto più lecite di quanto si possa pensare. Soprattutto per il binomio “Arte come industria”: impiegava il lavoro altrui e nemmeno le idee, spesso, erano le sue, le rubava e, anzi, a volte pagava gli altri per farsele venire, ma era talmente “sfacciato” che lo raccontava pure e senza un briciolo di vergogna. Questo è uno degli aspetti messi in evidenza, mentre si sottolinea che in realtà il suo non era uno studio vero e proprio, un atelier tipico degli artisti, bensì una “Factory”. Sono molti gli spunti, quindi, per riflettere anche sull’evoluzione dell’arte stessa, i confronti da fare con ciò che si sa di lui e che, magari, si è visto in una mostra, visionando filmati, leggendo libri (chi ha visto il ritratto di Lenin, per esempio, deve ritenersi fortunato!). Ed è stimolante questo “obbligo” di farsi domande su ciò che si sa, magari si è letto, si è immaginato e tutto quello che viene mostrato, quasi come una sottolineatura con l’evidenziatore.