
Scalare una collina che riesce a malapena a riempire un'ansa del fiume Spoon, affluente del ben più importante Illinois. Percorrere le strade di un'anonima cittadina, piegate le une sulle altre come lembi impazziti di origami malriusciti. Essere scrutati dalla gente, immobile e silenziosa, magari sorridente. Sincera mai. Entrare nel piccolo cimitero accolti solo dal cigolio del cancello di ruggire, fu ferro battuto. O forse no, niente barriere tra i vivi e i morti, nessuna differenza tra chi dice e chi tace. Rimanere in ascolto. Leggere gli epitaffi serve solo ad apprendere le menzogne; il vento, portavoce dei defunti, conosce la verità. A Spoon River, come nel mondo, i morti superano i vivi in quantità e in qualità, perché i “fu” perdendo tutto hanno lasciato andare anche la paura e ora possono raccontare come sono andate le cose, come vanno e come sempre andranno. Interrogare le lapidi e sentire le voci gracchianti, sibilline, roche di chi non c'è più: di chi ha amato e ucciso, di chi ha odiato e ricattato, di chi ha invidiato e vendicato, di chi ha fallito e disperato, di chi ha ignorato e parlato, di chi sapeva e ha solo ascoltato. Storie passate, forse sepolte, che continuano ad appestare (o depurare?) l'aria; perché in fondo alla strada tutte le persone sono epitaffi in potenza e le loro storie sempre le stesse...
È probabile che Edgar Lee Masters non sapesse proprio dove le poesie che pubblicava periodicamente sul "Mirror" di St. Louis tra il 1914 e 1915 lo stessero conducendo, senonché, fortunatamente, ad un certo punto lo capì e regalò alla giovane letteratura americana uno dei suoi capolavori a cui si può a ragione attribuire il merito di aver reso la poesia cosa da tutti i giorni. Letteralmente. L'Antologia di Spoon River, infatti, è un compendio di vicende quotidiane che un linguaggio secco, chiaro ma inspiegabilmente evocativo, innalza verso la mitologia. C'è quasi dell'epica nel tentativo di raccontare l'esistenza riproducendola all'interno delle risicate mura di un paesino del midwest, come forse un po' di presunzione nel sovrapporre i mestieri alle personalità e nel dividere l'umanità in categorie, pretendendo di descriverla solo cantando del primo della fila. È un po' come giudicare le fronde di un albero dalle radici. Ma, insomma, Caino e Abele, nel nostro caso, la dicono lunga... perché non potrebbero farlo una manciata di ipocriti, menzogneri, viscidi e appassionati abitanti dell'America provinciale di inizio novecento? Le poesie di Masters sono tessere di un ampio mosaico che si costruisce man mano che le anime dei sotterrati prendono la parola: le storie che sembravano fini a se stesse vengono progressivamente intrecciate alle vite di altri fino a completare un quadro intricato e affascinante. Se davvero fossimo lì, seduti sulla poca terra che le lapidi lasciano respirare, saremmo costretti ad appuntare, tra i sassi, nomi e situazioni con un bastoncino trovato per caso. I nomi, però, gli anni li porteranno via: quel che rimarrà sarà che qualcuno, da sempre e per sempre, amerà fino a morire o uccidere. Spoon River, in questo senso, trascende il tempo: chi legge è inevitabilmente portato ad immaginare altro, altrove, dato che anche ciò che viene narrato è già successo e non sta accadendo, o perlomeno non lì, tra le anime passate di chi non ha più l'omertà a cucirgli la bocca. Non che parlare di realtà e finzione abbia senso quando si tratta di letteratura. Ma a suo modo, invece, un senso c'è: l'originale struttura obbliga il lettore ad accettare la propria condizione di spettatore con onestà e rassegnazione, senza fingersi parte della vicenda, senza dover per forza entrare nella storia. D'altronde se gli eventi raccontati possono essergli lontani, nella Storia, con la S maiuscola, egli è immerso fino al collo. I moniti un po' ipocriti di chi ha sperimentato tanto la vita quanto la morte – e rimpiange la prima ma preferisce la seconda – potrebbero, perciò, tornare utili. A loro modo i poetici e metaforici morti viventi di Masters sono i migliori insegnanti che si possa desiderare. Quando il cigolio del cimitero di Spoon River (ma non avevamo detto che non c'era?) suonerà come un congedo, bisognerà ricordare che “tutti, tutti, dormono sulla collina”. Ma con un occhio aperto.
È probabile che Edgar Lee Masters non sapesse proprio dove le poesie che pubblicava periodicamente sul "Mirror" di St. Louis tra il 1914 e 1915 lo stessero conducendo, senonché, fortunatamente, ad un certo punto lo capì e regalò alla giovane letteratura americana uno dei suoi capolavori a cui si può a ragione attribuire il merito di aver reso la poesia cosa da tutti i giorni. Letteralmente. L'Antologia di Spoon River, infatti, è un compendio di vicende quotidiane che un linguaggio secco, chiaro ma inspiegabilmente evocativo, innalza verso la mitologia. C'è quasi dell'epica nel tentativo di raccontare l'esistenza riproducendola all'interno delle risicate mura di un paesino del midwest, come forse un po' di presunzione nel sovrapporre i mestieri alle personalità e nel dividere l'umanità in categorie, pretendendo di descriverla solo cantando del primo della fila. È un po' come giudicare le fronde di un albero dalle radici. Ma, insomma, Caino e Abele, nel nostro caso, la dicono lunga... perché non potrebbero farlo una manciata di ipocriti, menzogneri, viscidi e appassionati abitanti dell'America provinciale di inizio novecento? Le poesie di Masters sono tessere di un ampio mosaico che si costruisce man mano che le anime dei sotterrati prendono la parola: le storie che sembravano fini a se stesse vengono progressivamente intrecciate alle vite di altri fino a completare un quadro intricato e affascinante. Se davvero fossimo lì, seduti sulla poca terra che le lapidi lasciano respirare, saremmo costretti ad appuntare, tra i sassi, nomi e situazioni con un bastoncino trovato per caso. I nomi, però, gli anni li porteranno via: quel che rimarrà sarà che qualcuno, da sempre e per sempre, amerà fino a morire o uccidere. Spoon River, in questo senso, trascende il tempo: chi legge è inevitabilmente portato ad immaginare altro, altrove, dato che anche ciò che viene narrato è già successo e non sta accadendo, o perlomeno non lì, tra le anime passate di chi non ha più l'omertà a cucirgli la bocca. Non che parlare di realtà e finzione abbia senso quando si tratta di letteratura. Ma a suo modo, invece, un senso c'è: l'originale struttura obbliga il lettore ad accettare la propria condizione di spettatore con onestà e rassegnazione, senza fingersi parte della vicenda, senza dover per forza entrare nella storia. D'altronde se gli eventi raccontati possono essergli lontani, nella Storia, con la S maiuscola, egli è immerso fino al collo. I moniti un po' ipocriti di chi ha sperimentato tanto la vita quanto la morte – e rimpiange la prima ma preferisce la seconda – potrebbero, perciò, tornare utili. A loro modo i poetici e metaforici morti viventi di Masters sono i migliori insegnanti che si possa desiderare. Quando il cigolio del cimitero di Spoon River (ma non avevamo detto che non c'era?) suonerà come un congedo, bisognerà ricordare che “tutti, tutti, dormono sulla collina”. Ma con un occhio aperto.