
Cosa farebbe un pellegrino degli anni Venti del Ventunesimo secolo per rafforzare la fragile fede nell’umanità, nel futuro? Partirebbe comunque, alla volta di un orizzonte di angoscia e paura, per “guardarlo in faccia, questo orrore futuro”, per trovare un senso e un insegnamento. Il primo passo è la propria casa: il mondo che vi entra, attraverso uno smartphone, rimanda immagini catastrofiche, scenari di guerra, un clima impazzito e nuovi batteri invincibili. Per non parlare della fine della civiltà. L’Apocalisse comincia su YouTube e su Google News: come costruire un bunker antiatomico fai da te, tutorial su cosa infilare rapidamente nello zaino per sopravvivere in lande disabitate (spoiler: un fischietto, il mini purificatore d’acqua, un piede di porco)… Il “survivalismo di lusso” è invece la nuova ossessione dei miliardari di San Diego e di quelli tedeschi: se i primi mettono su un articolato villaggio di costruzioni sotterranee chiavi in mano, in Europa si sceglie di arroccarsi in rifugi nascosti sui monti della Turingia. I miliardari della Silicon Valley stanno acquistando terreni nella suggestiva Nuova Zelanda, perché il capitalismo non vuol mica finire con la fine del mondo… I “triliardi di altre Terre” (asteroidi compresi) sono invece l’obiettivo di aziende statunitensi guidate da ex ingegneri aerospaziali convertitisi in guru futuristi. Ossessionati dalla “retorica della frontiera”, dagli USA cercano spazio e affari nell’Universo… E poi c’è la Zona: siamo in Ucraina - quando era solo un paese cuscinetto e non oggetto di bombardamenti e altri orrori. Dal disastro ecologico di Černóbyl’, dopo oltre trent’anni di morte e radiazioni che via via svaniscono, proprio qui si può saggiare il senso della fine, intravedere l’estinzione su piccola scala…
“Stiamo vivendo la fine dei giorni o forse no; comunque sia, la cosa indubbia, la cosa interessante, è che siamo vivi”. Questo non è un libro sul futuro: si occupa del presente. Se l’Apocalisse non è dietro l’angolo, l’angoscia che la accompagna è reale adesso. Il nuovo reportage di O’Connell è un viaggio fisico ma, per sua ammissione, soprattutto “metafora di una condizione psicologica. Riflette una crisi intima e lo sforzo per superarla. Ho girato il mondo (…) perché ero preoccupato per me stesso”. I benefici sono per tutti i lettori. Come nella precedente, notevole, spedizione tra i fanatici del trans umanesimo - Essere una macchina - leggere gli scenari mostrati da O’Connell è un’esperienza arricchente e coinvolgente. Lo scrittore irlandese spinge alla riflessione mostrando i fatti, senza sensazionalismi; mette insieme minuscoli, elitari, pezzi di mondo attuale che avranno certamente un peso specifico immane nel prossimo futuro. Tutto comincia al tempo della pandemia e del cambiamento climatico, quando l’autore comincia ad avvertire, anche come padre, gli indizi di un progressivo disfacimento intorno a sé: “Mi bastava poco (…) per imboccare la strada che conduce alla fine del mondo”. E dunque parte per altri continenti per cercare visionari, comunità invasate, investitori, subculture, sognatori. Da tali privilegiati punti di osservazione si scorgono risposte nuove a domande eterne. La fine della civiltà che abbiamo sinora costruito sarà forse un bene per un pianeta così maltrattato? La realtà si è già trasformata in un racconto di Philip K. Dick o Aldous Huxley? Sopravviveremo come comunità solidale o l’ultimo uomo sulla Terra sarà uno stupido miliardario?