
“Nascerà una bambina e avrà il tuo sangue, e nasceranno altri bambini e le loro madri soffriranno moltissimo”. Dicevano così le vecchie del paesino, le squame sul mento e le mascelle macerate, le guance grinzose e oscura maestà sepolte nelle palpebre. “Ogni cento anni nasce una bambina così. E ogni cento anni la vita delle Nerissime è in pericolo”. Le Nerissime, secondo loro, sono spettri che lasciano una traccia scura ovunque passano, sono belve che sventrano cadaveri, fanno a pezzi i corpi, e verranno a cercare la bambina, la Sperduta. “La loro vita dipende dalla sua morte” dicevano, ma era quasi impossibile crederci; “la porteranno a Roccagloriosa” aggiungevano, alludendo a un luogo sospeso fra realtà e immaginazione. È un sogno di cui nessuno sa niente, ma di cui si parla da tempo immemore, esiste anche se nessuno saprebbe provarne la concretezza, è un accesso dove entra solo chi ha un miracolo da mostrare. Ed è là che vogliono portare la Sperduta, dopo che l’avranno rubata…
È davvero una favola oscura Arruina, come recita il sottotitolo: oscura per le tinte goticheggianti scelte dall’autore, favola per come è narrata e per la patina grottesca delle vicende, che ci fanno percepire il racconto come lontano, proveniente da un altro mondo dove onirico e reale sono la stessa cosa. Eppure una chiave di lettura sta proprio qui, nella presa di coscienza – ci pare di capire – che l’unico modo per raccontare i demoni e le paure che abitano l’animo umano sia indossando le lenti deformanti dell’irrealtà. Leggere Arruina è come andare a vedere un film tratto da un libro di Poe con la testa piena di allucinogeni che rendono ancor più difficile la comprensione di ciò che è reale e di ciò che non lo è, è come un brutto sogno incredibilmente realistico che si cerca di trascrivere l’indomani, al risveglio, in maniera sconnessa. Il racconto ha un andamento desultorio e poco lineare, legato spesso più alle immagini che al senso, dove le parole sono scelte per associazioni irrazionali e dettate dal suono, con un effetto spiazzante per il lettore. La voce narrante ci racconta anche di individui che mutano forma, che sembrano essere attraversati dai rami, di cinghiali che assaltano la dimora del protagonista, di paesaggi che cambiano, di oscuri figuri che si muovono a loro agio nella notte. In questa mutazione tutt’altro che armoniosa si intravede una forma di panismo perversa, da intendersi in maniera tutt’altro che positiva: non c’è un ricongiungimento dell’uomo con la pace della natura, ma un avvicinamento ostile, percepito come una minaccia, tanto che in taluni passi si assiste a una trasfigurazione e a uno smembramento del concetto stesso di umanità. È un viaggio dell’eroe, per dirla con Chris Vogler, quello alla ricerca della Sperduta, e se ne possono rintracciare tutti gli stilemi fondamentali: il richiamo all’avventura tramite la rottura dell’equilibrio iniziale, l’incontro con nemici e alleati, la discesa in una sfera sempre più recondita, la presenza di prove da superare, il compimento della missione. Arruina però si deve anche leggere secondo il leitmotiv classico della catabasi, dove si discende in un inferno privato e popolato da personaggi spettrali incontrati nei vari livelli del viaggio (quasi sempre i capitoli hanno come titolo il nome di questi personaggi). Francesco Iannone, esordiente salernitano, è un Kafka che camuffa la sua voce imitando quella di Giovanni Verga, impastando un italiano letterario sublime col dialetto campano, che riesce a conferire vita a una narrazione altrimenti tutta dominata dalla morte. L’assurdo del narrato, insomma, unito all’iperrealismo di una lingua vivida e tratta dall’uso comune e popolare. Una voce personalissima che si inserisce nel solco di alcune produzioni catalogate negli ultimi anni come “gotico meridionale”.