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Atti umani

Atti umani

Gwangju, 1980. Gli alberi di ginkgo sono in fiore, vicino all’Ufficio Provinciale si sentono le parole dell’inno nazionale. Nella palestra sono ammassati i corpi, solo una parte è stata riconosciuta e reclamata, solo una parte ha trovato posto nelle bare, che scarseggiano, e ha ricevuto gli onori funebri. Il tanfo è tremendo, nemmeno la mascherina chirurgica può contrastarlo. I corpi appartengono a uomini, donne e bambini falciati durante la rappresaglia militare, alcuni giacciono sotto i drappi in attesa di un riconoscimento e quelli che si trovano lì da più tempo ormai sono talmente gonfi a causa della putrefazione da avere perso le sembianze originarie. “Quando una persona viva ne guarda una morta, accanto al corpo non potrebbe esserci anche l’anima del defunto, che scruta la sua faccia dall’alto?”. Mentre i soldati sparano sui civili e i cadaveri vengono ammassati dove capita, i volontari mettono in ordine e puliscono il sangue, incuranti della legge marziale e del rischio che corrono. In particolare due ragazze: Seon-ju e Eun-sook si prodigano nel gravoso compito, raccolgono viscere, ricuciono lembi di pelle strappata, un lavoro incessante. Dong-ho si limita a scoprire e ricoprire le salme per mostrarle a chi cerca i propri cari, smoccola le candele e le dispone accanto alle bare. E attende di ritrovare il suo amico colpito dalle pallottole, nella speranza che tutto finisca, che la vita torni alla normalità, alla scuola, agli esami di fine trimestre, ai ricordi piacevoli che nulla hanno a che spartire con le nuove esperienze che sta vivendo, fatte di percosse, spari, morte e quell’odore insopportabile che neppure la pioggia lava via…

Il 18 maggio del 1980 a Gwangju, in Corea del sud, la popolazione si oppose al dittatore Chun Doo-hwan, che aveva preso il potere con un colpo di stato l’anno prima, assassinando il Presidente Park Chung-hee. Gli scontri durarono 9 giorni e la rivolta sedata dai soldati, i sopravvissuti imprigionati e torturati. La censura e il potere militare condizionarono la vita delle persone per anni e le punizioni corporali divennero una costante. Oggi gli eventi del 18 maggio vengono ricordati nella giornata di commemorazione nazionale, che cerca di ridare dignità alle vittime. Nel romanzo di Han Kang la tensione e i pensieri di coloro che rimasero coinvolti negli scontri vengono descritti con sensibilità e consapevolezza, ed è impossibile dopo aver letto queste pagine, togliersi dalla mente l’immagine dei ragazzi armati di fucile, rannicchiati sotto le finestre, che mangiano merendine e bevono Fanta, impegnati a lottare per la loro libertà, convinti di essere invincibili come sempre accade ai giovani, ignari del tormento che li attende con la repressione e il significato della tortura: “Vi faremo capire quanto eravate ridicoli, tutti voi che sventolavate la bandiera coreana e intonavate l’inno nazionale. Vi dimostreremo che non siete altro che corpi luridi e puzzolenti”. Un racconto intenso, scorrevole nonostante le atrocità descritte, dove la morte si alterna ai sogni dei giovani e sopravvivere diventa un lavoro quotidiano. Un romanzo corale, ogni capitolo dà voce a uno dei personaggi e alla sua esperienza di quegli anni sanguinosi. La paura permette di conoscere sé stessi fino in fondo. Il 2 ottobre 2017 la Kang ha ricevuto a Capri il Premio Malaparte, dedicato ad autori internazionali: “Il libro testimonia ancora una volta come il XX secolo sia stato un secolo breve e stragista, e che la sua eredità sia stata raccolta dal XXI secolo. Con in più un’arte perfezionata della dimenticanza”.