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Barabba

Barabba

Il Nazzareno lo hanno condannato alla crocifissione. Barabba, invece, lo hanno liberato per acclamazione di folla. E lui è sollevato che quei chiodi che gli erano destinati finiranno per tormentare le carni di un altro. Uno sconosciuto venuto a dichiararsi re. Ma non uno sconosciuto qualunque. Non c’è gioia nella liberazione. Nessuna soddisfazione e nemmeno gratitudine. Barabba sente il gusto acre di quello che gli è stato restituito, che è poco più di niente: polvere, incertezza, stigma, bettole. Chi lo ha liberato lo ignora, chi segue quell’altro lo odia, tutti gli altri lo considerano come il pezzo di fango di sempre. No, non c’è felicità in questo per Barabba, un bruto, un criminale segnato da una mostruosa cicatrice sul volto che lo rende riconoscibile a chiunque. Ed evitabile da chiunque. Quello scambio di persona, quell’uomo ucciso al posto suo per uno spiccio baratto, segna una frattura che si divarica lentamente, ma inesorabilmente. Chi era veramente quell’uomo e perché così tanta gente ha pianto la sua morte. Che fenomeno è stato quello cui ha assistito, della terra che ha tremato, del cielo che si è oscurato quando quell’uomo, inchiodato e trafitto, è spirato sulla croce. Perché, in quello stesso momento, anche lui si è sentito perso, confuso, travolto dalla terra, dal cielo, dalla morte, come se quella morte gli appartenesse. Chi sono quelli che per tramandare il suo insegnamento devono nascondersi ed essere invisibili alle autorità romane. Che dicono quegli insegnamenti che predicano amore e compassione. Chi è lui a cui, al posto di una morte straziante, è stata data una vita mendica ed emarginata? Barabba è toccato da un desiderio di cui non conosce la parola per nominarlo. Un fermento che gli sconvolge l’anima. Dentro di sé si spalanca la voragine che ingoia tutti i paletti, le certezze, tritura la tracotanza e l’arroganza e niente che lo ricolleghi all’uomo che era prima della liberazione, né le notti con le prostitute sotto un cielo stellato che nota per la prima volta con tanta intensità da rimanerne soffocato, né il timore dei pavidi che gli sbattono in faccia chi è e non vuole più essere...

Barabba, che nel 1951 è valso a Lagerkvist il premio Nobel per la letteratura, è la parabola dell’essere umano che tocca il fondo dell’esistenza e non riconosce più niente di sé, sopraffatto da domande che per incultura e linguaggio non riesce ad accoppiare ad alcuna risposta. È l’evoluzione dell’uomo a cui le sostanze della terra non bastano e sente dentro di sé un fermento che lo spinge ad andare oltre. Barabba, l’uomo, è il depositario di un desiderio di pace, di inclusività, di rinascita. È l’abietto toccato da una forza più grande e indicibile, impossibile da decifrare. È l’essere umano che contempla la propria pochezza. La propria pochezza salvata. Lagerkvist rende fragile e sconvolto un individuo truce che nelle Scritture compare appena, ma è la chiave di volta di tutto. Ne fa un graziato e uno sconfitto, uno toccato da un amore che non si spiega. Ce lo racconta ben oltre le stesse Scritture senza però sovrapporgli né la caratura dell’eroe, né quella del redento. Barabba, alla fine, resta quello che è, un uomo con uno stigma da nascondere - quello del graziato - e con un desiderio di vita e amore che va troppo al di là delle sue possibilità. Scritto con una verve poetica cruda e straziante che porta insito il manifesto della compassione e l’occhio amorevole che si getta sui caduti, su quelli che la storia ignora perché brutti, sporchi e cattivi, questo romanzo non è una lettura convenzionale né orientata da una spiritualità definitivamente collocata e definita, dacché Lagerkvist dichiarava di essere ateo. Significa che non è una lettura per soli credenti, ma per tutti coloro che rischiano di calarsi nelle profondità intestine di una storia stratificata, complessa, piena di malinconica penombra, di abissali vuoti e di impenetrabili pieni. Si esce distrutti (e riedificati) sia dal confronto con la parola (nel puro esercizio di stile) sia da quello con Barabba che non fa più paura e non fa più schifo. Ed è esattamente la ripugnanza vanificata il nucleo centrale di questo romanzo che ha la carnalità di un’opera teatrale, così radicato alla terra, alle miserie degli esseri umani, alla nostra spregiudicata sete di ricerca; così strettamente avvinto alla filosofia del volto che vede nell’altro non la colpa, non lo stigma, non il crimine, ma la tensione ardente alla resurrezione.