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Bartleby lo scrivano

Bartleby lo scrivano

Bartleby viene assunto come copista presso un importante studio legale di New York per coadiuvare i lavori degli altri impiegati: Nippers, Turkey e il fattorino Ginger Nut. Tra Bartleby ed i tre c’è poca socialità: lui è totalmente dedito al suo lavoro, mangia appena, non esce mai, non si intrattiene in chiacchiere. Quando in ufficio si presenta la necessità di rileggere minuziosamente tutti gli atti di una pratica lo scrivano si tira indietro e continua a farlo davanti a tutte le altre mansioni che non siano scrivere, con un rispettoso: “Avrei preferenza di no”. Quando Bartleby smette anche di scrivere e passa intere giornate a guardare fuori dalla finestra il titolare dello studio legale, seppur combattuto tra la frustrazione ed un forte senso di pietà, prova a licenziarlo, ma invano. Lo scrivano non si muove dalla finestra. E non si muoverà, fino al più triste e gelido degli epiloghi...

Bartleby resta un enigma irrisolto. Le interpretazioni sulla criticità del suo personaggio si sprecano. Certo è che lo scrivano, nonostante le apparenze da reietto, vittima di un mistero oscuro che lo imprigiona e di un isolamento che lo confina ai margini della società è forte di una personalità d’acciaio, quasi l’incarnazione della disobbedienza civile predicata da Thoreau, uno che ci tiene alla propria libertà individuale ma che allo stesso tempo genera, col suo carattere sfuggente, il paradosso dell’individuo misantropo e oscuro. Melville tesse un racconto dai risvolti inquietanti, trapuntato da un’angoscia crescente. La figura di Bartleby suscita sensazioni forti e progressive: fastidio, pietà e, alla fine, compassione. Eppure, la trama che gioca sul contrappunto tra lo scrivano anomalo e i suoi colleghi fintamente normali e socialmente integrati impone di sospendere il giudizio sul copista perché la domanda che ritorna spesso nella mente del lettore, una specie di campanello d’allarme per non cadere nella trappola dell’equivoco è: ma chi è, alla fine, il vero reietto?