
“Nessun lavoratore, neppure part time, può essere povero, può cioè guadagnare meno di mille euro al mese. Niente di rivoluzionario, ma si tratta di un primo obiettivo – per quanto moderato – che sfida l’aumento delle disuguaglianze che dai luoghi di lavoro e non lavoro si estendono a tutta la società. Nell’ultimo anno, per una forma più o meno ossessiva rispetto alle urgenze ma anche alle carenze politiche, abbiamo iniziato a pensare che la questione del salario minimo anche in Italia avrebbe potuto rappresentare un passo importante per quella battaglia”. 2012, New York. Duecento lavoratori dei fast food decidono di scioperare rivendicando un salario minimo di 15 dollari l’ora. Comincia così un vero e proprio movimento politico, il Fight for $15, che da New York si è esteso a centinaia di città. Le campagne per gli aumenti salariali negli anni si sono diffuse a macchia d’olio, negli Usa ma non solo. In Bangladesh hanno incrociato le braccia migliaia di lavoratori del settore tessile, imponendo il blocco di molti siti produttivi. Non a caso si parla qui di tessile: in quel paese, infatti, molte multinazionali di questo settore hanno scelto di delocalizzare la produzione, dato il basso costo della manodopera... Un passo indietro nel tempo, primo dopoguerra, anni Cinquanta. La società italiana vive un mutamento epocale, un cambio di assetto, da un’economia prettamente basata sull’agricoltura a un assetto industriale. Prende il via un processo di riconversione tecnologica, si affianca la nascita di nuovi poli produttivi di beni di consumo. Prendono forma le prime mobilitazioni, nel 1946 nella piana di Milazzo, il primo sciopero delle gelsominaie. Sono anche gli anni del piano del lavoro di Giuseppe Di Vittorio, segretario nazionale CGIL. Se in un primo momento Di Vittorio punta a una proposta di minimo salariale, successivamente questo obiettivo viene soppiantato da quello più urgente della lotta contro la disoccupazione. Sono anni di grandi manifestazioni e di scontri, ma anche di sangue, violenza: la morte di sei operai durante una manifestazione a Modena il 9 gennaio 1950, dieci anni dopo altri cinque operai, durante lo sciopero a Reggio Emilia, sono fatti che segnano la società in modo netto e doloroso. Un periodo di scontri duri ma anche di conquiste. “Il protagonismo del movimento operaio del decennio Sessanta avrà un ruolo indelebile per il progresso materiale e civile della democrazia italiana. Lo Statuto dei lavoratori e l’istituzione del Servizio sanitario nazionale all’alba del decennio Settanta costituiscono il lascito di una grande stagione di lotte, che da lì in avanti sarà il bersaglio di un attacco frontale scagliato nei luoghi di lavoro e nelle stanze del potere”...
Marta Fana, già autrice di Non è lavoro, è sfruttamento sempre per Laterza, ricercatrice in economia, in questo volume scritto a quattro mani con il fratello Simone, membro della redazione di “Jacobin Italia”, torna a occuparsi di diseguaglianze economiche concentrandosi in particolare sulla questione salariale. Dagli embrioni del movimento operaio al meccanismo della scala mobile, arrivando agli anni Novanta e a vecchie e nuove forme contrattuali, passando per l’avvento della tecnologia, fino al grande tema del salario minimo, che si ricollega alla contrattazione, senza tralasciare il modo in cui a sinistra e destra le varie forze politiche lo hanno trattato. Poco meno di 200 pagine, in cui si fa un excursus storico delle lotte salariali accompagnato da analisi volte a scardinare vecchi e nuovi preconcetti, dalla “tecnologia” che ruba il lavoro, agli imprenditori che non trovano giovani disposti a lavorare – e qui non manca il j’accuse ai mass media che alimentano questo tipo di narrazione: “Meno di frequente, per usare un eufemismo, quelle stesse pagine raccontano una realtà molto più diffusa, quella delle condizioni di lavoro a cui sono sottoposti questi lavoratori: quelli che hanno salari orari di tre, quattro, sei euro lordi l’ora, quelli costretti al lavoro gratuito come se non ci fosse un domani, a un tirocinio a 400 euro al mese pure se dura 40 ore la settimana e non si vede traccia di formazione, che ricevono rimborsi spese che non bastano neppure per ripagare l’abbonamento ai mezzi pubblici. Lavoratori e lavoratrici che quotidianamente affrontano giornate che non terminano mai perché bisogna fare uno, due, tre lavori per riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena”. Nel libro viene tracciato un percorso, che non nasconde il suo vero obiettivo, “la ricostruzione, seppure parziale, di un pezzo della nostra storia attraverso le immagini del passato e i numeri del presente, analizzati con gli occhi di chi crede che una battaglia non combattuta è una battaglia persa in partenza. [...] I capitoli che compongono questo libro vanno usati come pezzi di un attrezzo, un marchingegno fatto di parti più o meno indipendenti tra di loro che se messe assieme provano a restituire le ragioni di una storia ancora tutta da scrivere, in cui la classe lavoratrice può e deve assumersi la responsabilità di svolgere un ruolo da protagonista e non da comparsa”.