
Agosto 1917. La giornalista americana Louise Bryant è in Russia per seguire i tempestosi avvenimenti politici in corso assieme al marito, il celebre John Reed. È sua una delle prime descrizioni di un fenomeno drammatico: “Sin dall’inizio della guerra, quasi quattro anni fa (parla della Prima Guerra Mondiale ovviamente, ndr), per i bambini la situazione è stata insopportabile. (…) Le creature che ancora chiamiamo bambini hanno face vecchie e tristi… I volti pallidi, infelici, le scarpe logore, I vestitini sformati e laceri sono un’eloquente testimonianza della loro miseria”. L’attrice e regista Anna Lacis nel 1919 si trova nella città di Orël, a 400 km da Mosca, e poco tempo dopo racconta: “Nelle piazze dei mercati, nei cimiteri, nelle case distrutte vedevo schiere di bambini abbandonati (…). Fra loro c’erano ragazzi con I visi neri, non lavati da mesi, indossavano giacche a brandelli da cui l’ovatta pendeva a ciuffi, calzoni imbottiti larghi e lunghi tenuti su con una corda. Erano armati di bastoni e spranghe di ferro”. Lo scrittore Joseph Roth, in viaggio in Russia nel 1926, fornisce in un reportage per il giornale “Frankfurter Zeitung” la seguente vivida immagine: “Torme di bambini abbandonati, pittoreschi e coperti di stracci vanno a zonzo, corrono, stanno seduti per le strade. I besprizornye, che vivono di aria e di sventura”. Dante Corneli, dirigente del PCI costretto alla fuga in URSS nel 1922 dopo ucciso con una revolverata il segretario dei fascisti di Tivoli, descrive la caotica situazione di Mosca e parla dei besprizornye: “Invisi a tutti come lebbrosi, neri di sporcizia e cenciosi, si aggiravano per le strade e nei mercati in cerca di cibo. A sera si rintanavano nei negozi e negli stabili abbandonati o semidistrutti. Là passavano la notte, ammucchiati gli uni sugli altri per riscaldarsi”…
Sono solo alcune delle testimonianze del terribile fenomeno dei besprizornye, i bambini rimasti orfani per la Grande Guerra, la Rivoluzione o la carestia e ridotti alla condizione di homeless, costretti a vagare per le città e le campagne in cerca di cibo e riparo e dediti ad accattonaggio, furto, violenza, prostituzione e abuso di alcol e droghe. “Nella prima metà degli anni Venti erano centinaia di migliaia, con un picco di circa sette milioni nel 1922 (nel 1926 la popolazione dell’URSS era di poco superiore ai 147 milioni di abitanti)”, spiega Luciano Mecacci, già Professore ordinario di Psicologia generale all’Università di Firenze in questo interessante saggio corredato anche da numerose, suggestive fotografie d’epoca e da brani poetici e letterari struggenti. Ma sono testimonianze preziose, perché per decenni l’argomento ha rappresentato un tabù, oscurato dalla censura stalinista, che non poteva certo ammettere la presenza di un’ombra così dolorosa sui primi anni dell’Unione Sovietica. Prima dell’avvento di Stalin e che calasse definitivamente una cortina di cupo silenzio sul dramma dei besprizornye con il decreto del Soviet dei Commissari del Popolo datato 31 maggio 1935 l’argomento però era stato descritto, denunciato, dibattuto, combattuto – seppure con alterne fortune (si veda per esempio il congresso tenuto a Mosca dal PCUS nel 1924 proprio sulla lotta al fenomeno da parte del giovane Stato sovietico) – e persino raccontato con accenni lirici in romanzi e film. Solo negli anni Sessanta si tornò a parlare di besprizornye, anche se soltanto per celebrare (con più di una esagerazione) la soluzione del problema da parte delle autorità sovietiche. “In una nuova fase avviatasi alla fine degli anni Ottanta e ancora in corso”, spiega ancora Mecacci, “le ricerche sui besprizornye sono state condotte secondo un’impostazione storiografica libera dai vincoli della censura di Stato e dai condizionamenti ideologici e favorita dall’accesso ad archivi pubblici e privati dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica alla fine del 1991”.