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Bianco

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I social sono diventati una nuova agorà, dove chiunque può esprimere le proprie opinioni senza schermi, senza pensare troppo a quello che sta scrivendo (tanto si può sempre correggere, no?) ed essere effettivamente “se stesso”. Utopia pre-millennium o falsità che le grandi corporation dell’informazione vogliono far passare come verità? Sicuramente la seconda, ma per molti “leoni da tastiera” è ancora in pole position la convinzione che l’esprimersi attraverso un mezzo con un pubblico potenzialmente infinito abbia qualche conseguenza nell’ordine delle cose, che un misero like possa cambiare veramente il mondo o più semplicemente possa far star male il bersaglio delle invettive e dei commenti non richiesti. Questo cambio di prospettiva, che da qualche anno ci costringe inevitabilmente a promuovere la nostra immagine sul palcoscenico della Rete, ha definito un mondo virtuale di opinioni catalogabili – al cospetto del severo e intoccabile politically correct – sempre più come “giuste” o “sbagliate”, come meritevoli o non degne di nota. Un rasoio di Occam – quello del like – basato su indottrinamenti e algoritmi concepiti dalle grandi aziende dell’informazione post-imperiale, macchine e golem tecno-feticistici utili a farci perdere l’amore per il dibattito e per la considerazione di noi stessi, qualsiasi siano le nostre opinioni. Un esempio di questo comportamento unidirezionale lo sono state le elezioni presidenziali americane del 2016, la tornata in cui ha vinto Donald Trump. Nessuno credeva che avrebbe vinto (come in Italia nessuno credeva che avrebbe vinto Berlusconi nel 1994) e nessuno si capacitava di chi avesse potuto eleggere un personaggio di quel tipo. Il fatto strano era che nessuno parlava delle vere motivazioni che avevano fatto vincere il tychoon: la maggior parte della gente rimaneva sgomenta e cieca di fronte al fatto compiuto, capace solo di lamentarsi, di cliccare sui “dislike” dei tweet presidenziali...

Queste ed altre tematiche (la percezione della sessualità gay, le modalità di scrittura di Meno di zero, American Psycho e altre sue opere, i commenti sui libri di altri scrittori americani come David Foster Wallace e Joan Didion, le sparate contro i millennials) nel nuovo libro di Bret Easton Ellis. Quasi dieci anni dopo Imperial Bedrooms, torna lo scrittore americano – ottimamente tradotto da Giuseppe Culicchia – con le sue sparate al vetriolo e il suo stile caustico ovviamente senza alcun filtro di correttezza, ma non per questo privo di acume. Il libro nelle tematiche generali sarà apprezzato dal lettore occasionale, ma è nella spiegazione di alcuni personaggi dei suoi libri (ad esempio il racconto dell’apparizione di Tom Cruise, che negli anni Novanta Ellis incontrava in ascensore) e di cosa significassero certe scene o personaggi dei suoi capolavori che l’autore dà il meglio, a costo di risultare troppo vicino ai fan o al suo pubblico più fedele. Ellis lo ami o lo odi, non è un personaggio facile, è una mosca bianca nel panorama letterario mondiale. Ha avuto la fortuna/sfortuna di esordire “con il botto” e negli ultimi anni si era un po’ perso fra sceneggiature a luci rosse, podcast, ipotesi di regia e social network. Ma in questo libro torna alla grande a parlare con un’intelligenza sopraffina di particolari e di manie che ce lo rendono più vicino, quasi come nelle sublimi recensioni di dischi e gruppi in American Psycho (la storica chiusa di quella sui Genesis: “Genesis is still the best, most exciting band to come out of England in the 1980s.”). Qui è tutto così: un libro pieno di sparate, di giudizi tranchant e di giustificate critiche allo status quo. Alcuni punti non sono sempre eccellenti, ma per uno che non sembrava poi così interessato a esprimere le proprie opinioni, perlomeno su carta, la raccolta è invece rivelatrice di uno spirito libero, imbevuto di pessimismo da Generazione X e privo di pregiudizi (memorabile il dialogo con il tassista londinese che non si capacita della sua passione momentanea per la musica country) con una capacità analitica del presente che smaschera la dura verità, senza troppo prendersi sul serio. Ellis mostra un disincanto spettacolare, che se ne infischia della propria reputazione. E quanto bello è poter leggere frasi del tipo: “Ho capito, ho capito, quel Trump del cazzo non vi piace ma cazzo ne ho abbastanza e che cazzo” o “Come funziona davvero il mondo: non si piace a tutti, quella tale persona non ricambierà il tuo amore, i bambini sono molto crudeli, il lavoro fa schifo, è dura essere bravi in qualcosa, […], non hai talento, la gente soffre, invecchia, muore”. Il ritorno necessario di un cattivo maestro. Bentornato, Bret.