
“Come districarsi all’interno di quel controverso labirinto che è l’identità musicale afroamericana, in questo sempre più schizofrenico XXI secolo? O meglio, si può davvero avere la presunzione di spiegare qualcosa di così complesso?”. La musica nera, cioè creata da neri, ascoltata da neri, pensata da neri o semplicemente composta con lo stile della tradizione nera (quindi anche esaltata, diffusa, composta e abusata dai bianchi) è sempre più di dominio quotidiano: l’ascesa del rap, dell’hip-hop, della trap, degli sculettamenti twerking sono ormai diventati oggetti culturali nazionalpopolari anche nel suolo italico, solitamente refrattario a ciò che proviene dall’estero e sotto sotto amante del bel canto e della linea melodica (Mahmood vs Al Bano, Achille Lauro vs Orietta Berti, etc.). Definire un perché e un percome del boom di questo immaginario (non solo) musicale, è praticamente impossibile: si può tentare di affrontare il fenomeno attraverso innumerevoli sentieri. Perché quindi non declinare l’analisi mettendo “insieme due approcci che di rado si è tentato di far coincidere”? E cioè quello storiografico e quello musicale. Niente di nuovo, dirà qualche assiduo frequentatore della saggistica musicale. Il punto di vista proposto non si prefigge di analizzare l’identità nera partendo dal classico “tempo zero” della tratta degli schiavi, poi immigrati in America a lavorare nelle piantagioni di cotone, importatori di musica blues e spiritual gospel ante litteram. Qui si tirano indietro le lancette e si parte da molto prima: in particolare dal “primo incontro tra Africa subsahariana ed Europa”, tra imperi e culture che sul finire del Medioevo non erano troppo distanti. La scoperta ad esempio delle connessioni tra l’impero del Ghana (vi dice niente il Wakanda di Black Panther?) e i mercanti europei è solo una delle storie che vanno a colmare un vuoto non approfondito sui banchi di scuola e quindi inedito per molti lettori non specialisti di storia Africana. Cos’hanno a che fare i mercanti di spezie con James Brown, Kendrick Lamar e Beyoncé?
Il saggio del giornalista musicale italiano Babando, definito nella prefazione da Enrico Brizzi come “un’apparizione gentile e confortante nel cuore di Bologna”, utilizza un linguaggio pulito, in molti punti letterario, e proprio per questo è bello lasciarsi intrigare dalle vicende storiche degli africani, che già molti secoli prima di approdare controvoglia in America avevano costruito una civiltà vicina a quella dei colonizzatori Europei. La tesi più forte della monografia è che in molti studi “nell’ambito dell’africanistica contemporanea” emerge che vi è “una partecipazione perfettamente cosciente dell’Africa in ogni settore commerciale, compreso quello degli schiavi […]. Nelle società subsahariane la schiavitù aveva un’importanza fondamentale perché rappresentava l’unica forma di capitale privato. […] Ecco spiegata la facilità con cui il flusso delle vendite è stato deviato verso l’America.” La storia lascia il passo alla musica, ma anche qui il punto di vista è vicino al doo-woop (Ravens, Orioles, Platters) e al pop, più che al soul e al blues e alle ritrite analisi politiche sul black power degli anni Settanta. È proprio questo atteggiamento disincantato, onesto ma non meno attento alle evoluzioni e alle tappe principali dell’argomento trattato, a rappresentare il punto di forza di questo saggio, a metà fra antropologia culturale, flash di album fondamentali e analisi musicale di album che arrivano a toccare il contemporary r&b, l’hip-hop e le ultimissime propaggini di un’epopea che mai come ora è doveroso approfondire per i suoi innumerevoli risvolti etici sfociati ad esempio nel movimento Black Lives Matter.