
Lujos è uno scrittore appassionato di rock, fumetti, birra e calcio, tifa per il Bologna. Vive in un bilocale costituito da una porzione di garage la cui saracinesca è bersagliata dall’esubero di birra degli avventori dell’adiacente pub. Ha da poco vinto una discreta somma al “Gratta e vinci”, cosa che gli consente di prendersela comoda per qualche mese. Suona in una cover band il cui repertorio è totalmente costituito da brani di Bob Dylan. Ha un rapporto non idilliaco col proprio editore Belasco, soprattutto da quando questi ha sviluppato un’inspiegabile dipendenza da vino in tetrapak. Lujos detesta suo padre, uno scrittore che ha avuto successo pubblicando mattoni commerciali e che ora ha assunto l’aura del predicatore con il testo Gesù Cristo spiegato a un seguace di Buddha e di Brahms. L’odiato genitore ha a suo tempo abbandonato la famiglia e vive in bassa California; la madre di Lujos invece s’è rifatta una vita e ora convive col metodico e affidabile Perozzi. È dopo un pesante pranzo natalizio che la mamma di Lujos, approfittando del riposo postprandiale del Perozzi, abbatte sul figlio una stupefacente rivelazione. Forse lo fa anche sfruttando il fatto che la tv sta trasmettendo il film Soffocare, tratto dal romanzo di Chuck Palahniuk, che parla di genitorialità... La bomba viene sganciata: il tanto odiato scrittore non è il vero padre di Lujos. E chi sarebbe allora??? La cosa ha dell’incredibile: il vero padre che Lujos non ha mai conosciuto, è qualcuno che tutto il mondo conosce. Ed è un tipo che, il finora inconsapevole figlio, ammira molto...
In copertina campeggia il volto di Bob Dylan, il titolo è quello che è, tra le pagine invece, c’è tutt’altro. Come succedeva negli anni ’70 al cinema: i distributori nazionali avevano totale libertà di re-intitolare i film stranieri e stampare locandine. Al botteghino imperversavano i film boccacceschi, quelli pecorecci, il filone erotico e il porno. Finiva che un titolo tipo Le massaie zozzone vogliono tutte il mattarello stampato su un manifesto con una donna dall’espressione arrapata, si rivelava essere il film di un intellettuale ungherese incentrato sulla stagnazione del Partito, metaforicamente rappresentata con tre riprese a telecamera fissa sulla pianura magiara. Qui, a dispetto del titolo e della copertina, non siamo alle prese con un saggio musicale. Sì, Dylan è presente (anche troppo) ma, nell’economia del romanzo, l’eccesso di riferimenti specifici al cantautore risulta pleonastico laddove non d’intralcio. Gianluca Morozzi sa scrivere, sa padroneggiare stili e generi differenti e la sua vasta produzione ne è la testimonianza. Bob Dylan spiegato a una fan di Madonna e dei Queen conferma la qualità del suo stile leggero e divertente, talvolta votato all’iperbole, con situazioni tratte dall’ambiente di provincia e infiocchettate con un po’ di fantasia. Ritengo anche che l’autore sia ingiustamente ignorato dalla critica “ufficiale”. Forse perché gioca con temi minimi e quotidiani o forse per chissà quale altra ragione... Sorvolando sul titolo incongruo, la lettura è piacevole, intrattiene bene, da prendere per quella che è: l’assemblaggio e la rielaborazione di materiale di risulta derivante dal mancato saggio su Dylan che Morozzi ripropone in chiave narrativa attraverso il vecchio personaggio di “Lujos”, già presente nei romanzi Luglio, agosto, settembre nero, L’era del porco e altri. Sì, si legge bene e si sorride, ma la riproposizione di rock band di provincia, calcio, fumetti, donne, Dylan e casini vari potrebbe non bastare a giustificare un intero romanzo che si spaparanza sul già scritto e letto. La stanchezza si fa sentire dopo pagina cento. Forse per la ripetitività delle dinamiche e l’eccessiva riproposizione dei pensieri incentrati sui rapporti con l’altro sesso. Divertenti dapprima, talvolta anche arguti, finiscono con l’appiattirsi sullo stereotipo del maschio che si sente in obbligo di apparire sempre allupato. Atteggiamento un po’ idiota, alla fin fine, se non altro perché non paga. E il presunto “donnaiolo” Lujos ancora non l’ha capito che addentrarsi in un bazar con l’aria di chi non vede l’ora di spendere non funziona? Che bisogna vendere e non comprare? Sotto sotto, dietro a un io narrante un po’ troppo poco separato dall’autore, si nota un certo autocompiacimento nello stare continuamente a trafficare con le femmine, senza però arrivare a strapparci un ghigno di consenso circa conoscenze acquisite che vadano oltre quelle che sembrano attestarsi su una tardo-adolescenza protratta oltre il limite accettabile dall’anagrafe. Anzi, lo sfoggio da pavone, ogni tanto, ci offre una ruota che presenta i colori di un inconsapevole provincialismo ingenuotto. Quindi, le vicende non ci stupiscono, non ci scandalizzano e non raggiungono livelli da profondi osservatori in materia. Divertente e un po’ inutile. Un vinello bevibile e beverino: forse però è ora di diminuire la produzione per aumentare la qualità. Magari con Dylan fuori dalla cantina.