
Nella valle della Verhovina c’è un paese. Poco più di un grumo di ombre, qualche casa, una locanda e un bagno pubblico circondato da un bosco muto, dove persino gli uccelli hanno deciso di non nidificare e andarsene altrove. Un luogo dove l’inverno dura di più, l’estate arriva tardi e se ne va presto e dove gli animali che restano imprigionati nel ghiaccio del fiume diventano blu per via dei sali di solfato di rame, come il cinghiale che i pochi stranieri che osano arrivare fin lì osservano dalla sponda. A comandare e prendere le decisioni, chiuso nel suo ufficio di sorveglianza e controllo delle acque, c’è il brigadiere Anatol Korkodus, che tiene con sé la minuta Roswitha, ragazzina sordomuta e che Anatol accudisce come una bambolina. A volte, il brigadiere si fa mandare dal penitenziario Monor Gledin ragazzi disadattati che mette al lavoro, come il giovane Adam e Janusky, spediti poi nel bosco e verso il lago a controllare e contare le sorgenti di acqua sulfurea che durante l’inverno creano una fitta cappa di vapore che aleggia ovunque. Gli abitanti del paese dove nessuno vorrebbe nascere, tanto che le gravidanze durano due anni, sono altrettanti ruderi umani, scarti senza speranze e futuro che vivono tra le quattro mura senza aspettarsi niente e i pochi forestieri, facce da cavallo o facce da topo, arrivano e se ne vanno o scompaiono tra le acque senza fiatare. Non c’è sole, non c’è gioia, la vita misera del borgo segue i ritmi delle decisioni di Anatol Korkodus, finché, una notte, non vengono a prelevarlo per portarlo verso una destinazione ignota…
Il sentimento che si prova leggendo questo strano libro di Ádám Bodor è davvero, come annunciato dall’editore, di frustrazione. Un senso costante di inquietudine accompagna il lettore come la nuvola di vapore opprimente che aleggia sopra e attorno al paese. Ma tutto ciò non significa che questo sia un aspetto negativo, tutt’altro. Significa che l’autore è riuscito a portarci dove voleva. Gli abitanti del villaggio, che nominano i capitoli, sono giustamente definiti come tavole bruegeliane nelle quali brulica, dipinto, un popolino schiacciato dalla natura e che vive una sorta di ininterrotta Quaresima. Non c’è sequenza cronologica, irrilevante per chi vive nel libro e per chi lo legge, come non c’è un futuro prossimo da aspettare. L’unica maniera per comprendere ciò che accade in paese è consultare un libro di cucina che Anatol Korkodus sfoglia alla ricerca delle risposte giuste. Ádám Bodor, nato in Transilvania nel 1936 e successivamente emigrato in Ungheria è considerato uno dei più importanti autori in lingua ungherese e allo stesso tempo definito crudele, spietato, perché, con questo romanzo, rivolge la sua lente verso le minuscole formiche di un paese raggelato, circondate da un invisibile cordone di filo spinato. Al lettore è affidato il compito di passare da una tavolozza all’altra, ritrovare i medesimi soggetti, recuperarne i colori smorti, i piccoli gesti quotidiani, osservare l’umanità cristallizzata come il cinghiale prigioniero del ghiaccio che non si scioglie mai.