
Anni ’60 -‘70 del Novecento, Svizzera. Gli italiani, qui, sono “brutti e cattivi”. Puzzano e, si dice, portano lo stesso vestito settimane intere anche se per andare in osteria mettono sempre “quello buono”. Hanno lavori irregolari e mal pagati, i bambini sono dei “fantasmi”, abbandonati in pochi metri quadri senza bagno che non si possono nemmeno chiamare case, ad attendere il rientro, spesso a notte tarda, dei genitori fuori per lavoro… Salvatore Coppola no, non è un bambino fantasma. Lui non puzza, dorme in lenzuola pulite, ha una stanza e un letto tutto per sé. Lui, gli altri italiani li disprezza e non perde occasioni per urlare e dimostrare loro questo schifo, questo ribrezzo, anche a costo di prenderle di santa ragione. Crescerà portandosi dentro questo odio profondo verso tutto e tutti… Anni ’10 del 2000, Sud Italia. Salvatore ha 45 anni, corporatura robusta allenata da anni di lavoro nell’edilizia. Per tutti è Cincalo, un nomignolo spuntato non si sa da dove che gli è rimasto affibbiato addosso. Irina, sua moglie, è di origini polacche. Se n’è andata di punto in bianco e lui ancora non riesce a trovare una motivazione. Con sua figlia Micaela, appena adolescente, non ha il minimo dialogo, come fossero su due galassie diverse, pur vivendo sotto lo stesso tetto… 1968, Baden. Michele Coppola e Carmela Iodice hanno rispettivamente venti e quattordici anni, entrambe le famiglie sono emigrate lì in Svizzera anni prima. Una gravidanza inattesa li costringe a un matrimonio riparatore. Michele tollera poco la Svizzera e ancor meno i suoi compatrioti, emigrati come lui. Vuol tornare nel suo paese ma prima vuol dimostrare di aver fatto fortuna, di essersi realizzato. Devono passare alcuni anni prima che Michele riesca a raggiungere il suo obiettivo. Al momento della partenza però, decideranno di lasciare in terra elvetica Salvatore, loro figlio, assieme ai nonni materni: ricongiungeranno tutta la famiglia solo molto tempo dopo, quando l’altra loro bambina, Rosa, avrà sei anni…
Secondo romanzo di Raffaele Mozzillo, sempre per i tipi di effequ, Calce è la storia di una famiglia, scritta a più voci e sotto punti di vista differenti a seconda dei personaggi. Se come diceva Tolstoj, “tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”, l’infelicità dei Coppola è fatta di segreti inconfessabili, di dolori che si tramandano pur tacendone l’origine, di vincoli ancestrali rescissi in apparenza ma in realtà inscalfibili. Mozzillo rovescia quello che nel Belpaese è una sorta di modello paradigmatico, quello della famiglia, lo mostra in tutta la sua fragilità e imperfezione. “Sono parecchie le cose nascoste, quelle che non si dicono all’interno delle famiglie: ci sono storie di padri che i figli non riescono a capire solo perché mancano dei pezzi. E allora succede che la memoria dei fatti si sfalda e la linea che tiene insieme le generazioni si spezza in più punti, disgregando ogni legame e allontanando gli uni dagli altri”, scrive l’autore. È un romanzo di rotture, di rapporti incerti, sgretolati: non a caso, c’è un cuore sbeccato nella copertina, così come nel dipanarsi della narrazione, tra un capoverso e un altro, troviamo dei segni grafici simili a delle crepe. All’inizio del libro c’è un’utile mappa genealogica dei personaggi che poi andiamo a incontrare nel corso della narrazione: Michele Coppola e Carmela Iodice, Don Ciro, un parroco lontano cugino di Carmela ritrovato nel paese natio, i loro figli Salvatore e Rosa, con i loro coniugi, Irina e Alfredo, e le loro figlie, rispettivamente, Micaela e Domitilla. E alla fine, un altro Salvatore. Difficile trovare un personaggio positivo, c’è tanto dolore, tanta rabbia, tanta crudeltà in questa umanità complicata e disperata che Mozzillo descrive con un linguaggio intenso, a tratti lirico, ma mai eccessivo nella sua raffinatezza. L’autore rovescia anche un altro paradigma, quello dell’immigrazione, ambientando parte del romanzo “quando gli stranieri eravamo noi”, in Svizzera, il paese europeo che nel secolo scorso ha assorbito circa la metà di tutta l’ondata migratoria proveniente dal nostro paese. Eravamo noi quelli che arrivavano da lontano, quelli con i lavori precari, quelli che gli autoctoni guardavano in cagnesco. Giova ricordarlo, ora che la situazione si è ribaltata e di tutto questo abbiamo quasi perso ogni traccia, tra l’indifferenza e, peggio, l’intolleranza. Mozzillo questo pezzo di storia invece lo racconta efficacemente, prima di calare il resto della narrazione nel profondo sud, con tutte le sue contraddizioni e difficoltà. Calce, pur non arrivando alla dozzina finale, è stato segnalato per il premio Strega da Filippo La Porta che, tra le altre cose, ha scritto nella sua motivazione: “perché ci parla di crepe lasciate dalla calce sulla parete che non puoi sistemare con due colpi di spatola, e che ci costringono a una resa dei conti: o precipitando o aprendoci a una verità che potrebbe salvarci”.