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Campi d’ostinato amore

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Approdato in quella stagione della vita in cui sciami di ricordi provenienti da anditi dispersi di storie esumate, di passioni provate, di persone e luoghi legati al proprio vissuto vengono ad adunarsi sui rami protesi e accoglienti della mente, il poeta raddensa qui la rappresentazione del proprio mondo poetico in immagini ed eventi che trascolorano e grondano di struggente malinconia: “quando la casa cambi / o la dimora, / salgono le memorie / fitte alla gola, / e se tendi la mano / quasi le tocchi, / ma il muro che le cinge / è d’aria o vetro, / nessuna forza lo può oltrepassare”. Ancora una volta il poeta urbinate affonda la penna nelle proprie origini e riporta in vita miti e riti di una civiltà arcaica. Ma ora la ricognizione del microcosmo rurale e la rievocazione degli episodi vissuti entrano nelle liriche da un punto di osservazione non più prossimo come in precedenza: “greppi, greppi amati / più non salgo / tra voi / col vento in faccia // anche sul piano / ora arduo è il cammino”. L’humus ambientale dell’altopiano delle Cesane costituisce pur sempre una simbiosi imprescindibile con il poeta: se si attenua l’intensità del vincolo di frequentazione, resta pur sempre quello della memoria e del resoconto poetico perché esso si è radicato nella sua carne viva: “Solo un poco / conforta la memoria / dei greppi luminosi / e le vicende / così perse e remote / così presenti”. E ancor più dolente diventa il rincrescimento provato a causa della condizione autistica del figlio Jacopo: “Siamo scesi un giorno / nei greppi folti, / abbiamo colto more / tra gli spini, / ora tu stai rinchiuso / nelle stanze / e il mio ginocchio che si piega / e cede / a quei campi amati / d’un amore ostinato, / sbarra l’entrata”…

Risulta pressoché impossibile accostarsi alla nuova raccolta poetica pubblicata da Umberto Piersanti al rintocco dei suoi ottant’anni di vita, senza considerarla una sorta di consuntivo poetico della sua intera vicenda esistenziale, l’apice di un intenso pathos poetico che è senso dolente e sacro, della vita; forza pietosa che accompagna lo sguardo sulle immagini di un tempo perduto, di persone scomparse, di gesti e comportamenti catturati tornando con la mente lungo i luoghi persi della sua patria poetica. Nessun’altra forma potrebbe svolgere tale ruolo meglio di un’autobiografia in versi che procede per epifanie - alcune di esse abbacinanti - o per rievocazioni di momenti significativi, che sintetizza i punti fondamentali di un’esistenza evocandone i punti intimi e simbolici. Sorretta da una mirabile capacità di conferire alla scrittura gli accenti e i ritmi di un racconto orale, il libro si presenta al lettore come un delizioso e toccante collage di racconti in forma di componimenti lirici. Ognuno di essi dà vita ad una personalissima mappatura emotiva che, nell’alterna ricostruzione del vissuto personale e di accurate descrizioni naturalistiche, diviene la forma espressiva di un procedimento rievocativo che ha il respiro di una di malinconia sobria e antiretorica, etica e civile. I vocativi più alti e appassionati sono dedicati al paesaggio, quelli più accorati e sofferti sono invece rivolti al figlio Jacopo, ferita irredimibile di una vita segnata, nondimeno, dal canto di “un amore ostinato” per la natura in ogni sua forma espressiva, nel compendio di gioia e dolore, in un tempo ormai lontano eppure ancora così vicino.