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Canaglia

Canaglia

La detonazione sveglia all’improvviso Tadek, come se avesse preso un pugno in faccia. Col respiro affannato apre gli occhi, è buio pesto e, dopo aver preso la sbarra di ferro che ha sotto il materasso, si precipita nella camera di suo figlio. Accende la luce, il letto è vuoto, i giocattoli sono sparsi a terra e la finestra è aperta. Salta fuori senza riflettere, poi, completamente sveglio ricorda. Sua moglie e suo figlio sono andati via. Sono le quattro del mattino, prende una birra dal frigorifero e si mette in giardino a guardare le prime luci dell’alba. Pensava che quella casetta vicino Gerusalemme sarebbe diventata quella dei suoi sogni, per dare un’infanzia felice a suo figlio, diversa da quella che aveva avuto lui in Polonia. Ma il suo matrimonio è finito, la moglie si è stufata della sua indolenza, del suo non far niente, della sua aria da fallito che aspetta: la primavera per curare il giardino, una buona idea per scrivere o la voglia di trovare un vero lavoro. Solo e sconfortato in mattinata decide di andare a trovare sua madre. Lei lo accoglie con curiosa incredulità. Tadek non va mai da lei di sua iniziativa e senza avvisare prima. Parlano del matrimonio finito e di che cosa Tadek vorrà fare, dopo un tè con qualche biscotto arriva la sera, cucinano e cenano insieme, frittata. Questa vicinanza gli fa bene. Tornato a casa sua, nella solitudine della notte stellata si rende conto che è davvero solo, il suo amico polacco Artur, attore teatrale, è in tournée, le sue sorelle Ota e Anka, come pure suo fratello Robert vivono all’estero, chi rimane? Si affaccia prepotente il ricordo di suo padre Stefan, che non vede da vent’anni, adesso è il 1988...

Canaglia è il primo romanzo pubblicato in Italia dello scrittore israeliano Itamar Orlev. È una storia spiazzante, potente, che destabilizza, efficacemente tradotta da Silvia Pin. Il libro nasce da una storia vera raccontata a Uri Orlev, padre dell’autore, da Ami, un giovane regista polacco. Molti anni fa Abraham Yehoshua disse a Itamar: “Non si dovrebbe scrivere romanzi prima dei quarant’anni, al massimo racconti”. Infatti, il primo tentativo di scrivere questo libro è andato male. Dopo sole cinquanta pagine l’autore capisce che non riesce a trovare la chiave giusta per raccontare la storia di Tadek e Stefan. Solo dopo la nascita del primo figlio, immergendosi nel complesso ruolo di padre, riprende la storia, arricchendola con episodi personali. Il libro inizia dal momento in cui la moglie di Tadek lo lascia, portando con sé il figlio di cinque anni e lasciandolo in uno stato di prostrazione. È un padre fallito, uno scrittore fallito, non guadagna, non ha amici, suo fratello Robert e le sue sorelle Ola e Anka vivono all’estero. Solo sua madre è rimasta a Gerusalemme. Nel 1968 ci fu la possibilità per gli ebrei polacchi di andare in Israele, la madre di Tadek è ebrea, il padre no. Lei compie un grande atto di coraggio per salvare i figli da Stefan e dalla vita povera che fanno in Polonia e li porta a Gerusalemme. È una famiglia traumatizzata, ma la madre a differenza dei figli non lo è, pur avendo avuto una vita davvero dura. Non è una madre molto espansiva, ma ha sempre fatto di tutto per i suoi figli, può essere considerata la vera eroina del romanzo, perché tutti gli altri sono antieroi. La narrazione procede in un susseguirsi di flashback. Dal presente in cui Tadek, giunto a Varsavia, si confronta con un genitore anziano, debole, ma ancora pieno di rancore. Il lettore poi è proiettato nel passato del protagonista che rievoca commosso l’infanzia in cui lui e i suoi fratelli vivevano in un villaggio fuori Varsavia e in seguito nella cittadina di Wroclaw con la paura costante delle violenze del padre, perennemente ubriaco. Una vita che non aveva nulla di spensierato. Il 1988, quando Tadek arriva a Varsavia, è l’anno prima del crollo del comunismo in Polonia. Prima c’è stata la lotta del movimento sindacale Solidarność di Lech Walesa contro il regime comunista corrotto e decadente e nel libro questo senso di ineluttabile fine è percepibile. Si ricollega bene a quello che sta accadendo all’animo di Tadek e, come per il comunismo, anche per lui c’è una fine. La storia si biforca in due viaggi diversi che procedono insieme. Uno è quello che padre e figlio fanno insieme per tre giorni fino al villaggio natio di Stefan. L’altro è nei suoi ricordi e scopriamo, insieme a Tadek, che il padre è stato un partigiano polacco, catturato poi dai nazisti, torturato per tre mesi e poi internato nel campo di Majdanek. È un personaggio molto oscuro con tratti sadici, ma è anche un libertino, fa tutto quello che gli va di fare: mangia, beve, scopa, uccide, picchia ed è picchiato, si gode davvero la vita, seppur povera e miserevole. Dopo il viaggio in Polonia Tadek torna in Israele cambiato. Stefan è sempre stato molto determinato nel risolvere i problemi a suo tornaconto e da questo duro insegnamento Tadek capisce che deve smetterla di compiangersi e deve cominciare ad agire. Parte per la Polonia come il figlio di suo padre, ma torna come uomo, e forse come la Polonia un anno dopo, diventa una democrazia, anche per Tadek questo sarà un punto di svolta.