
“Per molti secoli la Bosnia si è trovata al centro di una contesa fra grandi potenze e culture, che ha lasciato le sue tracce sul paese”, almeno a partire dal 1463 quando, dieci anni dopo la conquista ottomana di Costantinopoli e la caduta dell’Impero Bizantino, i turchi si spinsero fino a Sarajevo e oltre, per rimanerci più di quattrocento anni, lasciando impronte indelebili sulla cultura e la storia di questo paese. Nel giro di pochi anni, iniziarono le conversioni all’Islam, in quel territorio fino ad allora prevalentemente cattolico. I giovani promettenti venivano strappati alle famiglie e spediti a Istanbul dove in alcuni casi facevano carriera: come fece Mehmed-Paşa Sokolović, che nel XVI secolo combatté contro gli ungheresi e divenne gran visir, dando l’incarico al grande architetto turco Mimar Sinan di progettare il celebre ponte sulla Drina, il quale a sua volta dà il titolo al grande romanzo di Ivo Andrić. Per due secoli, almeno fino al Trattato di Pace di Carlowitz (1699), attorno alla Bosnia si è giocata la sanguinosa partita militare fra Ottomani, Asburgo e Veneziani. Nel 1683 i turchi assediano Vienna; nel 1697 Eugenio di Savoia penetra nei Balcani e distrugge col fuoco Sarajevo. Dagli anni ’30 dell’800 prendono il via le rivolte contro le riforme centraliste del Sultano di Istanbul e nel 1878 la Bosnia fu affidata dalle potenze internazionali agli Asburgo. Tanto i serbi che i musulmani della Bosnia si opposero fermamente all’occupazione austro-ungarica, la quale però, appoggiata dai croati cattolici, si prefisse il compito di modernizzare le infrastrutture e l’architettura del paese. Per i viaggiatori europei la Bosnia diventò una sorta di “Oriente a portata di mano”, palinsesto di culture e di bellezze naturali. Il 28 giugno 1914, Gavrilo Princip rimise la Bosnia al centro del Secolo breve attentando alla vita di Francesco Ferdinando e dando l’innesco al primo grande conflitto mondiale; da lì in poi il controllo austriaco sulla Bosnia cambiò radicalmente: “la dinastia asburgica che fu forse uno dei regimi più tolleranti nella storia degli Imperi, diventò smodatamente crudele nei suoi ultimi anni”. La popolazione musulmana era venuta a patti con il potere imperiale e quindi fu risparmiata quando i generali cattolici massacrarono deliberatamente i civili serbi della Bosnia, della Serbia e del Montenegro, lasciando ai decenni a venire un’eredità difficile da sostenere. La catena di sangue che inonderà le terre Balcaniche durante tutto il Novecento è avviata.
La fine della Prima guerra mondiale consegnò la Bosnia ai nemici degli Asburgo: la dinastia serba dei Karađorđević, la quale non tardò a compiere la propria nemesi contro la borghesia musulmana e cattolica che aveva collaborato con gli austriaci. Il che, in ritorno, favorì l’ascesa del nazionalismo croato degli ustascia che nel 1934 arrivarono ad assassinare il re Aleksandr, indebolendo significativamente lo stato jugoslavo, il quale agli inizi degli anni’40 apparve ad Hitler una facile preda. Nel ‘41 la Germania invade la Jugoslavia, iniziando dal bombardamento di Belgrado, raccontato da Ivo Andrić in La vita di Isidor Katanić. In Croazia venne insediato il regime fascista degli ustascia che includeva anche la Bosnia-Erzegovina ed era guidato da Ante Pavelić, con il sostegno della chiesa cattolica, e spinto da una furia genocida. Fra il ’41 e il ’42 gli ustascia massacrarono centinaia di migliaia di persone per lo più serbi, rom ed ebrei deportati nei campi di sterminio nazisti. Alle violenze ustascia risposero poi quelle dei cetnici serbi, i quali, fortemente antisemiti e anticomunisti, si riproponevano di re-instaurare la monarchia dei Karađorđević. “L’orripilante esperienza degli anni Quaranta avrebbe potuto rendere quasi insuperabile l’impresa di unificare le diverse comunità religiose in un unico Stato. In questo contesto, il risultato conseguito da Tito e dai partigiani comunisti appare ancora più formidabile. Le imprese dei comunisti avrebbero saldato insieme la tradizione religiosa e i suoi valori fondamentali con un’ideologia progressista che guardava a un futuro migliore in materia di istruzione, giustizia sociale, lavoro.” Le parole chiave, dal ’45 in poi, sotto il pugno duro e paternalistico di Tito, furono “fratellanza e unità”. Nel frattempo, i vecchi nemici, i fascisti croati che cercavano rifugio nella Spagna franchista e compivano atti di terrorismo, venivano liquidati brutalmente, mentre le comunità italiane e tedesche della Jugoslavia “furono espulse in massa per non fare mai più ritorno”. I movimenti musulmani in Bosnia, nei quali militava il futuro presidente della Bosnia indipendente Alija Izetbegović, furono repressi dal regime. Dopo la morte di Tito nel 1980, la parentesi di stabilità rappresentata dall’esperimento di “unità e fratellanza” jugoslava crollò per la mancanza di un leader, per i debiti accumulati dal regime, per il risollevarsi delle ideologie nazionaliste - in particolar modo quella serba - che insanguineranno nuovamente la Bosnia negli anni Novanta: “Dai primi mesi del 1992 fino all’inverno del 1995 la Bosnia si ritrovò impelagata nel peggiore conflitto militare in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale.” Il lungo assedio di Sarajevo e il massacro di Srebrenica rimangono stampati nella memoria collettiva. Il titolo originale, A Concise History of Bosnia, rende meglio l’idea rispetto a quello italiano per quel che riguarda il compito – riuscito - che l’autrice si è prefisso con la stesura di questo volume: ripercorrere, in maniera approfondita ma spedita, la storia della Bosnia, dal dominio Asburgo ai giorni nostri. Ma oltre alla storia di questa terra, così densa di eventi, rivolgimenti e protagonisti, Cathie Carmichael, è attenta a far emergere la specificità di una cultura Bosniaca “distinta e riconoscibile” che vive “nonostante la guerra e l’innalzamento dei confini interni”.