
Frank ha 24 anni, è reduce dalla guerra di Corea ed è nero. Il suo ritorno a casa è senza gloria e senza allori. Un incubo lo perseguita, l’orrore visto e vissuto durante i combattimenti non si scrosta dai suoi occhi e dalla sua mente. È un ragazzo solo, disperso in un Paese razzista che non gli riconosce nemmeno il sacrificio della sua giovinezza. I traumi restano i suoi, il passato anche ed è lo stesso che alimenta in lui il desiderio di non rimettere piede nello Stato in cui è nato. Troppa violenza, troppa brutalità. Troppo dolore. Eppure ci sono legami così forti davanti ai quali le più radicate ostinazioni si sciolgono. Quel legame si chiama Cee, è sua sorella, vive in Georgia e ha bisogno di lui. Nonostante una esistenza che sta tentando con fatica di mettere in ordine assieme a Lily, nonostante il disgusto di ritornare in Georgia, Frank parte per raggiungere Cee a Lotus. “Lotus, in Georgia, è il posto peggiore del mondo, peggio di qualsiasi campo di battaglia. Almeno sul campo c’è uno scopo, emozione, ardimento, e qualche probabilità di vincere unita a molte di perdere. La morte è una certezza ma la vita è altrettanto sicura. Il problema è che non puoi saperlo in anticipo. A Lotus lo sapevi sì in anticipo perché non c’era nessun futuro, solo lunghi tratti di tempo da ammazzare”. Ritornare è riallacciare i nodi del passato in un presente immutato. Cee non sta soltanto male, c’è molto di più e quel di più è intollerabile, tragico. C’entrano i bianchi e c’entra che loro sono neri. Neri e poveri, carne da macello. In Georgia o in Corea non fa troppa differenza…
Toni Morrison, quando decidi di leggerla, devi saperlo in anticipo che ti lascerà a brandelli. Qualsiasi cosa scriva, in qualunque forma lo faccia, la sua crudezza ci coglie comunque impreparati. Non c’è possibilità di misurare quanto profondo possa essere l’orrore che racconta, né poter stimare quali abissi raggiungerà. Quella di Cee e Frank è la storia di una famiglia spezzata, stritolata negli ingranaggi della povertà e dell’intolleranza, vittima dell’ingratitudine di un Paese che manda al macello i suoi figli per poi voltargli le spalle; vittima del delirio eugenetico che mette schemi e frontiere sulla carne degli esseri umani. In A casa Toni Morrison narra una storia lontana dall’epoca moderna, ambientata negli anni Cinquanta, un tempo uscito dal secondo conflitto mondiale e vissuto come una sorta di età dell’oro, con le tv che trasmettono messaggi rassicuranti, abbondanza di lavoro, un benessere diffuso. Un periodo nel quale, però, dietro i lustrini e i sorrisi brillanti, brulica il maccartismo, una guerra - quella di Corea - di cui pochi sono a conoscenza, una violenza inaudita contro gli afroamericani in un’America ancora molto lontana dalle lotte per i diritti civili. Quelli, per i neri, sono gli anni nei quali non si pensa in termini di riscatto, ma in termini di sopportazione. Ed è in questo solco che la Morrison da un lato mette in evidenza lo spudorato razzismo dei bianchi, la disinvoltura sciocca - come sciocco è il senso di superiorità - con la quale distribuiscono il loro disprezzo e dall’altro esalta e glorifica quel senso di comunità della sua gente, la ramificazione che fa della tua famiglia non solo quella che ti ha messo al mondo, ma tutto l’insieme di relazioni dentro le quali ci si riconosce. L’unico luogo dentro il quale si trova la cura, il riparo e la salvezza. In cui Frank lotta per dimostrare che si può essere uomini senza essere maschilisti e Cee che si può ricominciare, non importa quanto profonde le ferite possano essere.