Salta al contenuto principale

Cent'anni di solitudine

José Arcadio Buendía, patriarca di una stirpe numerosa e tribolata, abbandona il villaggio nativo per sfuggire a un fantasma che lo perseguita. Dopo un lungo viaggio in compagnia della moglie Ursula, all’epoca incinta del primo figlio e terrorizzata all’idea di partorire un bambino con la coda di maiale frutto di un amore incestuoso, approda nel luogo in cui fonderà “un paese felice, dove nessuno aveva più di trent’anni e dove non era morto nessuno”. Lì Ursula darà alla luce Aureliano, “il primo essere umano nato a Macondo”, futuro colonnello leggendario, che guiderà la rivoluzione liberale e combatterà trentadue guerre perdendole tutte, e che terminerà la sua vita rinchiuso nel suo laboratorio, a fabbricare pesciolini d’oro per poi fonderli e ricominciare daccapo, assecondando il vizio ereditario della famiglia di fare per disfare. Col passare del tempo, si succederanno, con una tenace se non ostinata ripetizione dei nomi, vari José Arcadio e vari Aureliano, tutti diversi eppure simili tra loro, e tutti ineluttabilmente condannati a un destino di solitudine. Fin quando l’ultimo Aureliano, il primo e solo padre dell’animale mitologico, un bambino con la coda di maiale, non decifrerà le misteriose pergamene dello zingaro Melquíades...

Il miglior romanzo di Gabriel García Márquez, amato da generazioni di lettori, è uno dei più fulgidi e probabilmente il più celebre esempio del realismo magico di matrice sudamericana. Fin dal principio, infatti, ci si trova trasportati in un modo fiabesco eppure autentico, oltremodo somigliante a quello che conosciamo o che ci hanno raccontato, un modo dove ogni cosa è insieme comune e prodigiosa. Al di là di questo aspetto, per quanto estremamente affascinante e dal quale dipende molta della fortuna del libro, Cent’anni di solitudine è un romanzo estremamente complesso – finanche nella trama, ricchissima di avvenimenti e anche di personaggi di cui, talvolta, si fa fatica a seguire la tortuosa genealogia – che si presta a molteplici livelli di lettura. È non poco allettante, per esempio, considerare l’epopea dei Buendía come un’allegoria della storia dell’umanità che si arricchisce di suggestioni bibliche. La Macondo dell’inizio, dove “molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”, ricorda l’Eden, e José Arcadio Buendía, con la sua brama di conoscenza, fa pensare a un novello Adamo, fino a giungere, dopo aver attraversato epoche e vicende, alla distruzione definitiva di Macondo dall’innegabile sapore apocalittico. A dominare su tutto e tutti Ursula, la matriarca, la sola ad accorgersi che il tempo non passa ma gira in tondo, riflessione corroborata da quella di Pilar Ternera, anche lei a suo modo matriarca, in quanto ‘madre illegittima’ dei figli di José Arcadio e di Aureliano, per cui “la storia della famiglia era un ingranaggio di ripetizioni irreparabili”. E così, Cent’anni di solitudine è un loop, riporta alla mente la storia del re che chiede alla serva di raccontargli una storia, con la serva che comincia a raccontare di un re che chiede alla serva di raccontargli una storia, all’infinito. Qui, però, l’infinito lascia il posto alla fine, “perché le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra”. Epico, immaginifico, indimenticabile.