Salta al contenuto principale

C’era due volte il barone Lamberto

C’era due volte il barone Lamberto

“L’uomo il cui nome è pronunciato resta in vita”: queste le parole, tra il foscoliano e il pirandelliano diremmo noi italici, che un nobile piemontese, il Barone Lamberto, si sente rivolgere da un santone egizio durante un viaggio, a 94 anni, presso le Piramidi. Vista l’anzianità galoppante e le malattie che ogni settimana s’accrescono di numero e di intensità, delle quali – per ricordarle tutte, con le corrispettive terapie varie – il suo maggiordomo Anselmo ha preso nota in ordine alfabetico all’interno di un fondamentale taccuino, il Barone decide: “Proviamo, hai visto mai?”, e prende l’insegnamento orientale alla lettera. Da quel momento sei persone, tre uomini e tre donne, si alterneranno a turni, 24 ore su 24, presso la villa del Barone a ripetere il suo nome per quattro ore ciascuno: “Lamberto, Lamberto, Lamberto”. Ben retribuiti, s’intende, e controllati – alla bisogna – sia dal Barone che da Anselmo attraverso dei condotti sonori che sono in grado di portare, attraverso l’accensione di un interruttore, il suono del nome, amplificato, in ogni stanza dell’enorme villa. Tra le perplessità e le congetture non solo dei neo/impiegati a servizio dell’anziano nobiluomo, ma anche e soprattutto dei residenti nel luogo in cui la storia è ambientata, ossia l’isola di San Giulio, sul Lago d’Orta, i quali si chiedono il perché dell’assunzione di sei persone che non si vedono mai all’esterno del palazzo, il Barone inizia nel giro di poco tempo a prendere atto di enormi benefici, di inspiegabili guarigioni dovute all’evidenza alla nuova “cura”: non c’è niente da fare, deve prenderne atto anche l’inizialmente scettico e ora incredulo Anselmo: il Barone non solo guarisce, ma ringiovanisce. E lo fa sempre di più, dismette vecchie malattie, recupera nuovi capelli. Egli ha sempre avuto quale principale mira l’accumulo di ricchezze, ma da tempo ha invece quale preoccupazione pressoché esclusiva quella di recuperare forze, salute, efficienza e attività fisica. Anche anni di vita, visto che a quanto pare è possibile. Probabilmente si tratta di un intento più nobile, certamente più salutare per il Barone, che però certe volte sembra quasi tornare mentalmente bambino, con tutti gli spunti comici che una situazione del genere comporta. Ma mentre costui si organizza per farsi portare sull’isola, nella curiosità e sbigottimento di residenti e turisti, evolute attrezzature per il sollevamento pesi e per il pugilato, non sa di essere nel mirino di ben due differenti insidie, l’una più pericolosa dell’altra. La prima, “alla luce del sole”, ossia l’invasione dell’Isola di San Giulio da parte di una sorta di “commando” di rapitori, i “24 L”, così chiamati perché si chiamano tutti come lui, Lamberto. Armati fino ai denti, tengono in scacco tutti gli abitanti stabilendo orari di coprifuoco e razionando loro gli alimenti; lo scopo è quello di farsi pagare dalle tante Banche del Barone in tutto il mondo – 24, come i 24 L e come le malattie del protagonista – un riscatto di ben un miliardo di lire. L’altra, più nascosta, viene dal suo potenziale unico erede, Ottavio, suo nipote, il quale ha perso al gioco ogni suo avere e dunque ha una fretta indiavolata di poter mettere le mani sul patrimonio, con ogni mezzo soprattutto illecito: ma in questo momento, come impareranno tutti i suoi nemici, è veramente dura far del male in modo duraturo al Barone...

C’era due volte il barone Lamberto è uno degli ultimi ed anche uno dei migliori lavori di Gianni Rodari, stranamente non troppo conosciuto rispetto ad altri, pure meritevoli, ma magari più semplici nella struttura e più adatti ai lettori in tenera età. È una delle opere in cui i messaggi anche “per gli adulti”, sia pure in modo spesso subliminale, più abbondano, tanto da renderlo adatto anche ad una “seconda lettura”, che risulterà altrettanto piacevole anche in età più avanzata; anche dalle scene, per così dire, di contorno, ossia ad esempio quando vengono rappresentati i pettegolezzi dei turisti e dei residenti di fronte alla vicenda del sequestro del Barone, oppure dove vengono disegnati i caratteri e le personalità dei sei impiegati alle dipendenze del nobile, emergono in modo distinto i toni di humour grottesco e ironico che permeano la visione stessa dell’esistenza moderna come percepita da Rodari, il che induce inevitabilmente a riflessioni, sia pur divertite e leggere. Quella forse più profonda è messa in luce dal modo in cui è delineato il personaggio di Delfina: per chi conosce l’opera omnia di Rodari, è quasi un tòpos quello della donna in grado di rendersi indipendente, nel fare e soprattutto nel pensare, dall’uomo ed anzi talvolta di guidarlo ella stessa alla conquista della ragione contro ogni luogo comune (mi viene in mente il romanzo Atlanta o il racconto La bambola a transistor, da Novelle fatte a macchina). Si tratta di un personaggio per cui può valere un parallelo, per contrasto, con il Barone: egli ha vissuto, almeno fino all’incontro col Santone Egizio, in modo quasi inconsapevole (conscio solo del suo lusso e della voglia di ampliarlo), avendo sempre fatto quello che la tradizione familiare gli richiedeva ma senza mai un vero impulso autonomo, una reale iniziativa nel cercare uno stile di vita, un obiettivo che confacesse alle sue vere aspirazioni. La giovane Delfina, pur di età non matura, è esattamente il contrario: aborrisce chi non va fondo nelle cose o si culla nei proverbi o nel sentito dire, ed ha come motto quello di riflettere, approfondire e ragionare con la propria testa. È anzi l’unico personaggio in relazione al quale si può dire che, nel corso del racconto, Rodari non lo metta neanche per un momento alla berlina. Altri due aspetti sono a mio avviso particolarmente interessanti e degni di evidenziazione: la capacità di Rodari di gestire i toni, non divenendo mai pedantemente moraleggiante, ma lasciando che le figure negative “parlino per sé”, venendo già messe sufficientemente in ridicolo, svilite, dalle proprie azioni piuttosto che da commenti che sarebbero superflui e ridondanti; e poi l’abilità nell’accennare – tenendo sempre presente l’età del suo pubblico – alla naturalità della morte, alla semplicità della sua ineluttabilità, che non può e non deve instillare angoscia, bensì semmai deve servire a vivere il meglio possibile la complessità della vita. Commovente il finale, che non svelerò, e che peraltro a suo modo rimane aperto, potendo il lettore aggiungervi, se lo si desidera, lo sviluppo che più gli aggrada: poche volte mi è successo di congedarmi da una lettura così malvolentieri, nonostante avessi già letto e amato quest’opera già da bambino... o forse proprio per questo.