
Gennaio 1946. Fa molto freddo. Il tenente colonnello Louis Stone mostra orgoglioso alla giovane moglie francese Jacqueline Goddet la Statua della Libertà e lo skyline di New York. I due giovani sono sul ponte di una nave proveniente dall’Europa e Jacqueline, incinta del piccolo Oliver, si domanda “quali creature barbariche hanno costruito quelle torri di granito protese verso il cielo”. Come tanti francesi, è innamorata del cinema americano degli anni Trenta. Le donne di quei film – Joan Crawford, Katharine Hepburn, Norma Shearer, Greta Garbo, Bette Davis – sono i suoi modelli. E da quando ha letto il romanzo Via col vento fantastica di essere un po’ come Rossella O’Hara: appassionata e indipendente, inizialmente innamorata dal suo fidanzato ha perso la testa per “l’ospite che viene dal Nord, Rhett Butler, un uomo senza nemmeno una traccia di nobiltà, che la tratta da bambina viziata quale lei è”. Del resto come poteva una romantica ragazza francese di ventiquattro anni respingere la corte di un bel moro di un metro e ottanta con un fisico da torello, la divisa elegante e un’insolenza à la Clark Gable, che colmava lei e la sua famiglia di regali nella Parigi ancora piegata e umiliata dalla recente occupazione nazista, in cui i soldati americani sembravano ricchi dèi invincibili? Appunto. Così “Rossella si promise a Rhett sei mesi dopo la fine della guerra”: dopo essersi sposati nel Municipio di Parigi nel dicembre del 1945, Louis e Jacqueline hanno concepito Oliver all’Hotel San Régis e poi si sono imbarcati verso l’America “su una nave che riportava in patria ventimila soldati”, con un’unica donna a bordo, Jacqueline, che ha passato il viaggio a vomitare, dando la colpa al mal di mare non sapendo ancora di essere incinta. Una volta sbarcata a New York, l’impatto della giovane francese con gli Stone, famiglia della borghesia ebrea dell’Upper West Side, è sin da subito difficile…
“Indipendentemente dal fatto che il soggetto sia Richard Nixon o Alessandro Magno, c'è sempre qualche critico che lo punge per le imprecisioni storiche o l’approccio politico. Non questa volta. Con questo libro, il regista e sceneggiatore Premio Oscar ha finalmente trovato una figura storica che può interpretare con tutti i pregiudizi che desidera: lui stesso”, ha scritto Benjamin Svetkey sul “New York Times” recensendo questo memoir del cineasta settantacinquenne Oliver Stone. È intitolato Chasing the Light, “inseguendo la luce”, alludendo all’ossessiva ricerca da parte dei registi cinematografici della luce “giusta” per girare le scene dei film – “Per tutta la vita mi sembra di aver fatto proprio questo”, racconta lo stesso Stone nella sua introduzione – mentre il titolo italiano ha una sfumatura più “filosofica”, per così dire. Sorprendentemente, il libro copre soltanto i primi quarant’anni del regista, dalla nascita (anzi, anche prima) fino al 30 marzo 1987, la serata della 59ª edizione della cerimonia di premiazione degli Oscar, durante la quale Stone e il suo Platoon ricevono 4 statuette per Miglior Film, Migliore Regia, Miglior Montaggio e Miglior Sonoro. Della sua infanzia e giovinezza il cineasta in realtà aveva già parlato nel suo romanzo del 1997 Sogno a occhi chiusi (pubblicato in Italia l’anno successivo da Il Saggiatore), ma qui si sofferma di più e meglio sul tempestoso matrimonio dei suoi genitori – i cui caratteri analizza con lo sguardo distaccato e bonario che l’età avanzata ormai gli ha regalato – e sul suo doloroso epilogo con un divorzio per lui scioccante. Torna sulla sua ribellione contro la voglia del padre di vederlo laureato e sistemato, racconta la sua “fuga” da Yale, il viaggio in Vietnam per lavorare come insegnante nel 1965, il definitivo abbandono dell’università, il sogno di diventare uno scrittore, l’arruolamento in fanteria e il ritorno nel Vietnam in fiamme nel 1967. È proprio l’esperienza di guerra che lo ha forgiato segnandone il destino, un’esperienza che sin da subito sogna di raccontare in un film, cosa che riuscirà a fare solo dopo vent’anni, ma regalandoci un capolavoro. E poi la gavetta nel mondo del cinema, le droghe, le donne. Stone è abbastanza sicuro di sé da includere nel libro anche i commenti dei suoi critici più severi e da non nascondere le sue profonde contraddizioni come uomo e come artista, regalandoci un autoritratto vivido, vibrante, potente come il suo cinema.