
Los Angeles, 1968. Charcoal Joe è detenuto in un carcere di minima sicurezza, la sua detenzione per un reato minore durerà ancora poco. Da polizia e tribunali è ritenuto uno dei tanti delinquenti abituali, un attempato poveraccio nero, ordinaria amministrazione. L’ambiente criminale invece, non ne ha la stessa considerazione: quello di Charcoal Joe è un nome che fa ammutolire e fa sconsigliare qualsiasi azione azzardata a chiunque, anche alla mafia. Perché C.J., al secolo Rufus Tyler, nella sua attività criminale è accompagnato da una mente genialoide e “Charcoal Joe è una lapide che aspetta solo un nome”. Stavolta il nome potrebbe essere quello dell’investigatore privato Easy Rawlins, 48 anni, texano nero, veterano di guerra, una vita privata ed una famiglia abbastanza singolari: due figli adottivi, uno da una precedente relazione ed un rapporto altalenante con Bonnie, che è fuggita con un principe africano in esilio. Attraverso l’amico d’infanzia Mouse, col quale condivide il passato ma non la carriera criminale, Easy è incaricato da Joe di scagionare dall’accusa di omicidio il giovane Seymour: il ragazzo è stato trovato in una casa di Malibù con due cadaveri finiti a colpi d’arma da fuoco ed è stato arrestato anche se non aveva con sé una pistola, non ha alcuna connessione apparente con le vittime e non si profila alcun movente. Troppo grande, per la polizia, la tentazione di sbattere in galera un nero qualunque e chiudere il caso, i giudici non faranno troppe questioni. Spetta ad Easy farsi le domande che gli inquirenti non si sono posti ma, attenzione: a volere le risposte è Charcoal Joe…
Iniziamo dalla copertina (progetto grafico Polystudio) che definire attrattiva è poco e che, almeno questa volta, smentisce il detto inglese che recita: “You can’t judge a book by the cover”. Il contenuto è in perfetto stile con la suggestione visiva che rimanda agli anni ’60, al mondo underground e a quel filone investigativo in chiave afroamericana che, inaugurato dal film La notte calda dell’ispettore Tibbs con Sidney Poitier (non a caso del ’67), prosegue con il meno politicamente corretto Shaft il detective del ’71, attingendo ad una letteratura ormai consolidata dell’hard boiled afroamericano (definirlo “noir nero” potrebbe diventare un’acrobazia). A noi poco interessa l’intensità di pigmentazione dei personaggi, ma la questione razziale è molto presente nel romanzo e bisogna capirlo: siamo nell’America di fine anni ’60… Eppure, al netto del colore della pelle, il segreto della scrittura di Walter Mosley consiste, oltre che nell’aver consolidato il filone appena citato, nel non aver abbandonato le dinamiche, le forme ed il carattere dei “classiconi” americani di genere che, dagli anni ’20, molto hanno dato alla cultura di massa. La golosità degli appassionati verrà appagata da questo quattordicesimo episodio del detective Easy Rawlins nel quale prosegue la narrazione orizzontale delle sue vicende personali (stavolta Easy è solo con la figlia Feather), senza dare cenni di stanchezza o logorìo. Chi si imbatte per la prima volta in Walter Mosley invece, ha buone probabilità di cominciare tutta la saga di Rawlins dal principio o di incuriosirsi alla prolifica produzione dell’autore che include saggi, narrativa ed addirittura una trilogia spin-off che racconta le imprese di Fearless Jones il quale, tranquilli, anche in questo episodio sa arrivare al momento giusto. Come sempre.