
Nella letteratura russa, diavoli e demoni ricorrono e si incarnano per arrecare fastidi, disastri o tragedie all’umanità: quella accaduta a Chernobyl è una storia di queste. Le dimensioni immani del dramma, la presenza ubiquitaria della radiazione nel suolo, nel cibo e nell’aria, la luminescenza del luogo che pare una sublimazione sovrumana di un incendio: tutto concorre a dare l’impressione di una maledizione diabolica, di un maleficio. Eppure quello di Chernobyl è il più umano di tutti i disastri: cagionato dalla volontà politica di una simulazione di sicurezza progettata male ed eseguita peggio, ancora nelle sue conseguenze lascia scoperchiato il calderone dell’irresponsabilità dell’uomo e, soprattutto, di un potere dittatoriale che nega, minimizza, nasconde mentre manda migliaia e migliaia di persone a morire per tentare di mettere una pezza. L’esplosione del reattore 4 della centrale nucleare di Chernobyl pone fine ad una storia lunga, ricca di cultura e di traversie. Legata alle numerose comunità ebraiche che la abitano, la città attraversa i conflitti tra Ucraina e Polonia, le repressioni religiose, i pogrom, la devastante carestia che negli anni ’30 del secolo scorso ha ridotto alla fame e ucciso – ancora una volta, per volontà umana – milioni di contadini. Rispetto a tutto questo Chernobyl, ridotta a desolato simulacro di se stessa, sembra ora soltanto un monumento turistico e una lugubre cartolina…
Il titolo di questo libro risulta quasi fuorviante, per l’enormità dei possibili sviluppi del tema rispetto alla precisione del taglio, della selezione di notizie, ricordi e considerazioni operata. Francesco Cataluccio non vuole stendere un documentario esauriente sul disastro nucleare, né portare avanti un’inchiesta storica sulle responsabilità politiche legate ad esso. Piuttosto, nel suo saggio l’autore riesce a far emergere degli eventi la dimensione umana e urgentemente personale, a fare in modo che il nome di Chernobyl, così irrimediabilmente ferito da quanto accaduto, possa riappropriarsi della sua realtà storica, della sua natura perduta di luogo vivo, vissuto e abitato. Tutto questo all’autore riesce per l’alternanza di cronaca e ricordi autobiografici, che riposizionano l’esplosione nucleare all’interno della memoria collettiva anche italiana; grazie alla ricchezza di ricordi e testimonianze, letterarie e informali, che impongono al lettore la concreta enormità delle morti, della contaminazione ambientale, dei tumori dovuti alle radiazioni; infine, attraverso il racconto della storia passata di una città fino ad allora vivente. Il nome di Chernobyl, divenuto quasi vuoto, astratto e inumano come lo sono i luoghi vicino alla centrale, si riempie di nuovo del ricordo di quanto gli è stato rubato. Questo libro parla alla pancia del lettore, il che – almeno in questo caso – è un bene.