
Sono le undici e trenta del mattino, lo dice anche l’orologio della stazione, e Jacopo Villa sta aspettando suo cugino Biagio. Non c’è nessuno lì intorno, a parte lui. San Giuda è un paesino di montagna così insignificante che a nessuno verrebbe in mente di sceglierlo come meta di vacanza. Jacopo è il figlio di una delle anonime famiglie del paese, una di quelle che si tramanda il lavoro nei campi e nella fattoria di generazione in generazione e non ha pretese. Ha cominciato ad aiutare il padre appena terminata la scuola dell’obbligo e lì è rimasto. La sua vita è decisamente diversa rispetto a quella di Biagio, il figlio della sorella di suo padre, che ha frequentato l’università, si è laureato in ingegneria civile e ha conosciuto una realtà diversa rispetto a quella asfittica di San Giuda. Il treno arriva, fischiando e arrancando. Quando si ferma e la porta si apre, un solo passeggero scende. Alto quanto Jacopo, Biagio ha i capelli castani e corti, gli occhi azzurri e gli occhiali dalla montatura sottile. Porta con sé una valigia piuttosto grande, segno che si fermerà diversi giorni in paese. Suo padre è morto e Biagio è tornato a casa per assistere al funerale e per sbrigare tutte le pratiche di successione inevitabili in queste circostanze. Non si vedono da parecchio i due cugini e, quando sono uno di fronte all’altro, si abbracciano in una stretta forte, mettendo da parte le divergenze che hanno sempre fatto loro vivere un rapporto decisamente teso. Durante il viaggio in auto verso casa, Biagio chiede notizie riguardanti gli altri, i ragazzi che facevano parte della loro compagnia quando erano ragazzini, un gruppo affiatato a cui la loro adolescenza è stata legata. Noah sta bene, lavora alla falegnameria del paese e si occupa della sorella, che si è ammalata tempo prima. Diego, invece, si è perso. Sono anni che Jacopo non lo frequenta più, da quando l’altro bazzica in altre compagnie. In particolare, si è molto legato a Vincenzo De Simone, quel Viz che anni prima, a scuola, vendeva marijuana…
Un messaggio in codice che fa riferimento ad un tesoro nascosto da qualche parte. Un gruppo di vecchi amici, ciascuno impegnato a combattere con i propri demoni, che si ritrova dopo un lungo periodo di lontananza. Una caccia al tesoro in cui la posta in palio va ben oltre il valore economico, ma si fa ponte da cui potersi lanciare per cambiare finalmente il proprio destino e abbandonare il paese claustrofobico da cui si dipana la vicenda. Questo è il nuovo romanzo di Gabriele Dolzadelli - scrittore valchiavennasco, classe 1988, fondatore e co-organizzatore del festival letterario valtellinese “Libri in Valle” - una storia carica d’adrenalina in cui pare che lo scrittore, anziché una tastiera di computer, maneggi una telecamera: il raccontato cede spazio al mostrato, dando vita a un racconto cinematografico che si legge tutto d’un fiato. I soldi, che ben presto si sporcano di sangue, sono l’oggetto della spietata caccia al tesoro dei protagonisti e danno vita ad un effetto domino che spinge il giovane Biagio e gli amici di un tempo in un gorgo nero dal quale diventa sempre più difficile uscire. Non è l’avidità quella che spinge i ragazzi verso il baratro, ma il desiderio di riscattarsi, la disperazione e soprattutto il sogno di scappare da quel luogo nel quale il destino li ha collocati, una valle tanto bella quanto castrante e claustrofobica. L’amicizia e la fiducia, poste di fronte a situazioni contingenti di necessità, si sgretolano come un castello di carte, mostrando la debolezza umana e l’annoso contrasto tra la giustizia e l’avidità personale. Tra debiti di gioco e malattia, desiderio di riscatto e sogni irrealizzati, nelle pagine del romanzo si nasconde la risposta a una domanda senza tempo: quanto è forte il legame di amicizia tra gli esseri umani? Bellissimo il riferimento, nascosto nel nome della località in cui è ambientato il romanzo, all’apostolo traditore, quel Giuda Iscariota che, di fronte alla lusinga del denaro, non esita a tradire. Uno stile diretto e senza fronzoli per un romanzo spietato, in cui vittime e assassini si confondono, fino al colpo di scena finale e al tragico epilogo, in cui si mostra senza retorica fin dove possa spingersi la crudeltà umana.