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Chiodi

Chiodi

Esprimere il dolore, l’angoscia, una queta, rassegnata disperazione, l’inesprimibile, l’inesorabile (“Ora nevica sulle mie palpebre / il mio corpo / è pesante come roccia / e non c’è motivo di cambiare marciapiede / e non c’è motivo per / andare alle montagne”. Questo il compito che si prefiggono poesie che hanno come protagonisti fili d’erba che muoiono tra le pietre bruciati da un sole senza pietà e soltanto dopo morti – quando non possono più accorgersene – accarezzati dal vento mosso a compassione, oppure uccelli migratori che amano le città sulle quali volano ogni anno e si disperano a vederle martoriate dalla guerra e dalle bombe. Poesie in cui una donna può dirsi felice solo perché una volta andata a coricarsi non avrà più il dovere di alzarsi, di “parlare rispondere camminare”. Reagire? No. “Non pensare al freddo non muoverti / sul tuo corpo / bianco poi scenderà il sole / quando demoliranno le case di fronte / i comignoli e le antenne della televisione”. Sperare? No. “le città lentamente strangolano i loro / gracili giardini squarciano il corpo dei paesaggi / le strade // un uccello prova ancora a sollevarsi / risuona qualche parola qualche campana d’allarme / e cadono le pietre”…

Nel 2017 le Éditions Zoé esaudiscono finalmente – sei anni dopo la sua morte – il desiderio espresso da Agota Kristof negli ultimi anni della sua vita di vedere pubblicate tutte le sue poesie, scritte nell’arco di tanti anni prima in Ungheria e poi in Svizzera, in ungherese e in francese. Malgrado le liriche di Chiodi siano distanti tra loro nel tempo e non manchino differenze stilistiche e tematiche rintracciabili nell’antologia, il mood generale è senza dubbio plumbeo, pessimistico. Del resto la Kristof, a chi le faceva notare l’atmosfera angosciosa e triste dei romanzi della sua memorabile Trilogia della città di K., rispose: “Un libro, per quanto triste sia, non può essere così triste come una vita”. Non c’è però autobiografia in questi versi, rare le contestualizzazioni geografiche e temporali, non siamo di fronte a una carrellata di brutti ricordi. Eppure, leggendo le poesie della prima parte del volume, come fa notare nella postfazione il curatore Fabio Pusterla, “(…) abbiamo la sensazione di avvicinarci considerevolmente alla cosa «per la quale non c’è parola», e questo avviene per una ragione molto semplice: a farsi garante (…) è un io che ha già versato tutte le sue lacrime, che si è già ritratto in un dolore inesprimibile, un fortilizio di dolore che tiene chiuse in sé quasi tutte le emozioni”.