
Che cosa significa “scrivere bene”? Una prosa corretta dal punto di vista ortografico e sintattico è un requisito fondamentale per scrivere sui giornali, ma non basta per dar vita a un grande romanzo. Alcuni dei maggiori scrittori del primo Novecento si sono distinti proprio per il modo in cui hanno plasmato la lingua e dato più spazio al pensiero che all’azione, lasciando alla narrativa di consumo l’imperativo di una struttura efficace e conchiusa. Inoltre, come scriveva Flaubert, “occorre avere qualcosa da dire”, ovvero scegliere dei temi specifici e trattarli attraverso uno stile che sia un’“espressione personale” e non soltanto una dimostrazione di mestiere. Secondo Zola, “la cosa peggiore è quello stile pulito, che scivola via in modo facile e molle, quel diluvio di luoghi comuni, di immagini consuete, che fa esprimere al grosso pubblico il giudizio allettante ‘È scritto bene!’. E no! È scritto male, dal momento che non ha una vita propria, un sapore originale, anche a spese della correttezza e della proprietà della lingua”. È in tal senso che, secondo Squillaci, “in una scuola di creative writing tutto si può insegnare e imparare [...] tranne l’originalità, il temperamento, lo stile di un artista. Questo ‘scrivere bene’ [...] potrebbe portare a pagine ‘carine’ e ‘ben scritte’ ma senz’anima”. Per contro, “la letteratura che parla davvero è uno sguardo unico, [...] l’irruzione di una personalità nel mondo, una sezione di realtà attraversata da un temperamento, da un carattere”. Proust, Joyce, Céline, Musil e tutti i grandi autori moderni non hanno frequentato scuole di scrittura creativa, e la loro produzione è frutto di esperienze, studi e letture, di un genio che è “una grande attitudine alla pazienza”, del confronto con altri autori e, a volte, di una condizione privilegiata. Tutti i grandi autori, inoltre, hanno difeso le proprie preferenze in termini di strumenti narrativi (Arbasino rifiutava il passato remoto abbinato alla terza persona poiché suonava “catastale”), preferenze che possono dar vita a innumerevoli combinazioni (spesso vincenti per ragioni opposte), motivo per cui, secondo Squillaci, “se la nostra ipotetica scuola di scrittura [...] ne privilegerà una in particolare” potrà sfornare al massimo ottimi artigiani...
Chiudiamo le scuole di scrittura creativa! è un pamphlet acuto, godibile e denso, nonché molto meno polemico di quanto lascerebbe intendere il titolo provocatorio. Per Squillaci il creative writing è un pretesto per imbastire otto gustose riflessioni su ciò che ha reso grandi alcuni autori del Novecento (e non solo), sulla “trasmissibilità dei saperi letterari” e sui malintesi riguardo alla figura dello scrittore. Uno dei punti di partenza è un articolo del 1954 nel quale il critico Dwight Macdonald dileggiava quella manualistica che pretende di trasformarci in esperti di giardinaggio, scrittura o autocoscienza; per Macdonald non tutto si può insegnare e l’industrializzazione dell’arte non può che contribuire all’espansione del “midcult”, quella produzione culturale che riprende le conquiste della Cultura Alta ma le svuota di significato (film e libri magniloquenti ma “insinceri”, secondo Moravia). In generale, Squillaci può ricordare Macdonald per piglio, temi e visione, ma declina tutto ciò in un modo più garbato che è l’applicazione delle sue stesse teorie: Squillaci sfoggia infatti uno stile critico originale, discorsivo ma mai pop, arricchito da un uso mirato delle citazioni e un certo piacere per i vezzi autoriali (“Innanzi tutto”, tripli “due punti”, e così via). Da un lato, senza intenti didattici e con l’unico scopo di enfatizzare l’“espressione personale” (Zola), Chiudiamo le scuole di scrittura creativa! accenna a tutte le coordinate narratologiche delle quali ogni scrittore dovrebbe essere a conoscenza: la contrapposizione tra “intreccio di risoluzione” e “intreccio di rivelazione”, le tipologie del narratore (extradiegetico o intradiegetico, omodiegetico o eterodiegetico), e così via. Dall’altro, sono presenti sobri slanci ironici che non interrompono mai il discorso ma lo costeggiano per smorzare la tensione (uno su tutti: “per molti esteti sopraffini come io stesso tento ridicolmente di apparire qui”). Nell’insieme, dominano la coerenza interna e le giustapposizioni convincenti. È vero che il discorso critico di Squillaci sembra collocarsi in un passato non ben identificato, quasi i grandi autori del passato siano stati anche gli ultimi (il nume tutelare è Flaubert e l’unica eccezione “recente” è Sebald), ma va chiarito che il libello non ha alcuna pretesa di esaustività e che i pochi autori citati, tutti enormi, appaiono più che altro in funzione di archetipi. Va anche ribadito che il titolo è fuorviante, poiché Chiudiamo le scuole di scrittura creativa! dedica poco spazio alle scuole in sé e, assumendosi la responsabilità di una generalizzazione funzionale (considerato che molte scuole di scrittura creativa insegnano proprio che non esistono formule magiche), si rivela un anti-manuale agile, divertente e utilissimo, nonché dotato di anima e carattere.