
Napoli,1947. Il sindaco Giuseppe Buonocore osserva la porta chiusa dell’ufficio in cui si è rifugiato dopo l’interruzione piuttosto brusca del Consiglio comunale. Dall’esterno gli arriva, anche se attutito, il vociare della folla che ha fatto saltare il dibattito sul nuovo piano regolatore. Buonocore si accende l’ennesima sigaretta di contrabbando della giornata e, rivolgendosi all’assessore dell’Edilizia che insieme a tutta la giunta ha trovato riparo in quel piccolo ufficio, chiede cosa voglia quella marmaglia inferocita. Quel che il popolo vuole è presto detto: in quanto presidente della Deputazione, il sindaco si deve occupare di far rientrare in città il tesoro di San Gennaro, le tre casse nascoste durante la guerra presso la chiesa di San Paolo fuori le Mura a Roma. Il tesoro è frutto di un contratto stipulato tra il santo e il popolo, personificato dalla Deputazione, nel 1527. Sulla base di quanto scritto, San Gennaro si impegnava a proteggere la città in cambio di una serie di doni che dovevano essergli elargiti nel corso degli anni. Tutti, dai popolani ai sovrani, hanno rispettato il contratto e ognuno ha donato ciò che di più caro avesse. Ora che la guerra è finita, è giusto che il tesoro ritorni nella città del santo. Il rientro, tuttavia, non è così semplice: esercito e carabinieri si rifiutano di occuparsene, perché le strade sono piene di banditi e il carico troppo prezioso. Non ci si può neppure organizzare con una ditta privata armata, perché troppo costosa. D’altra parte, le tre casse devono essere riportate a Napoli perché non sia mai che San Gennaro si offenda e rompa il patto: in un attimo potrebbe arrivare una nuova eruzione del Vesuvio o un’epidemia di peste e colera potrebbero affliggere la città. Che fare, dunque? Ci pensa il re a risolvere il problema. L’uomo, che in realtà si chiama Giuseppe Navarra e si è tanto arricchito in periodo di guerra con i soldi della borsa nera da essere considerato un vero e proprio sovrano, si presenta al cospetto del sindaco e dichiara che andrà lui a riprendere il tesoro di San Gennaro...
Una coppia stranamente assortita che se ne va in giro, su una Lancia nera appartenuta addirittura a Mussolini - che evidentemente, tuttavia, non ha avuto l’occhio lungo, perché l’auto va in panne alla prima difficoltà -, per un’Italia in cui ancora si annusano gli odori e si osservano i colori opachi della guerra appena conclusa, la Seconda guerra mondiale. La strana coppia - che più che Jack Lemmon e Walter Matthau richiama alla mente i nostrani De Sica e Manfredi, o Sordi e Tognazzi - è formata da un re finto (imbrillantinato all’inverosimile e malfidato, puzza di contrabbando lontano un miglio, ma nasconde sorprese ad ogni occasione) e da un principe vero, pluriottantenne, raffinato e intelligente. I due, diversi come il giorno e la notte, sono accomunati dalla stessa missione: riportare a casa, in una Napoli che ha voglia, come la Fenice, di risorgere dalle proprie ceneri e di avventurarsi in una nuova fase di vita, il tesoro di san Gennaro - donazioni del popolo e dei nobili, di ricchi e di pezzenti nella misura in cui ciascuno se lo può permettere - portato durante la guerra a Roma, in un luogo sicuro, per impedirne il trafugamento. Da Napoli a Roma e ritorno, passando per Montecassino, Tivoli e Tagliacozzo, il lettore è invitato a seguire il nobile e il furfantello in una serie di avventure ora esilaranti ora più composte che raccontano di un’Italia certamente offesa dalla guerra, ma desiderosa di scrollarsi di dosso la polvere delle atrocità, di rimboccarsi le maniche e di ricominciare a vivere e a sognare. La vicenda di cui Francesco Pinto - regista, dirigente RAI e scrittore - racconta è storica; quindi, non si rischia alcuno spoiler svelando che il tesoro viene riportato a Napoli, dove oggi, in parte, è ancora possibile ammirarlo. D’altra parte, quel che davvero rende il romanzo un vero e proprio gioiellino - a proposito di tesori! - è l’avventura in sé che l’improbabile coppia vive. I due si perdono, si ritrovano, conoscono l’uno i segreti dell’altro e si riscoprono più simili di quanto l’apparenza mostri. Dialoghi esilaranti, giochi di sguardi che dicono più di mille parole, aneddoti e racconti incredibili si fanno portavoce della voglia di rimettersi in piedi e di tornare a credere in un futuro possibile. E, su tutto, domina la preziosa arte di improvvisare - così napoletana e, per esteso, così italiana - e l’altrettanto preziosa capacità di Pinto di raccontare storie perdute, meravigliose, come in questo caso, proprio perché profonde e scanzonate insieme.