
Milano, 1995. Da alcuni mesi hanno iniziato a incontrarsi con frequenza alla fermata Cairoli della metro. È diventata la loro base, il loro approdo, il loro rifugio in cui isolarsi. Bevono, parlano, scambiano pareri sulla musica. Poi si spostano a Parco Sempione, o al Laboratorio Anarchico, partecipano a feste e concerti, mangiano cartoni di LSD e si addormentano al Bosco in Città, sull’erba o sui muretti di cemento. Sono tanti, una quarantina di persone che evita di chiamarsi per nome anche per scongiurare il rischio che ci si possa “infamare” a vicenda in caso di retata. È un gruppo coeso ma eterogeneo, che trascina tutto con sé e agglomera chiunque come una valanga. Tossici, gente di strada, matti veri. Una moltitudine che si bea del suo vivere assieme, non importa dove e come… Un anno prima. La prima volta che lo vede è fuori dalle mura, prima della soglia di Cascina Nuova. La cresta fucsia è rigida di colla di pesce, il viso bianchissimo, beve da un bottiglione di vino rosso. Chi è quel tipo?, chiede a Paco. Massi, un punk, un coglione fatto e finito… Milano, 2000. Il risveglio è traumatico, gli arti sono legati saldamente alle sbarre di metallo e il materasso puzza di disinfettante. Firmate le carte, non resta che attendere i dolori lancinanti, i crampi e le allucinazioni…
Sceneggiatrice per cinema e televisione, ma anche autrice di narrativa per ragazzi, la milanese Francesca Tassini ci tiene a precisare che il suo Come mosche nel miele, pur non essendo strettamente un romanzo di formazione di carattere autobiografico, si rifà in maniera massiccia a esperienze di vita che l’hanno riguardata da vicino. Di libri, film e serie tv ambientati nell’universo della tossicodipendenza, che si nutrono di storie di strada, che si sviluppano attorno a centri sociali e movimenti giovanili, libertari e punk, ce n’è una marea, e non è necessario enumerarli tutti (Trainspotting e Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino bastano e avanzano a fagocitare chiunque si avvicini a quell’immaginario). La prosa della Tassini è semplice, tende all’arido, non si concede quasi mai uno slancio di “letterarietà”. Tuttavia risulta evidente che questo aspetto è dovuto sia alla particolarità della vicenda che al coinvolgimento emozionale che l’autrice sente e che prova a suscitare anche nel lettore. Se, probabilmente, non si sentiva la necessità di un altro libro che andasse ad aggiungersi al florido filone a cui abbiamo fatto riferimento, bisogna pure dire che in Italia il tema delle dipendenze non accenna a “passare di moda”, e anzi il recentissimo caso Sanpa che la serie Netflix ha acceso nelle settimane scorse dimostra che la narrativa può ancora dire qualcosa in merito. Come mosche nel miele, romanzo torbido che apre uno squarcio sulla Milano degli anni Novanta – una città sporca, tossica, che si è poi ripulita e ha nascosto la spazzatura sotto al tappeto, dandosi un’immagine glam e sfavillante – ci ricorda che il dramma dell’eroina con tutto ciò che comporta non è un’esclusiva di Mark Renton e Christiane F.