
È tutto talmente in balia di questo suo tira e molla che Mattia si sente come una boa sperduta nel mare. La porta in camera da letto e cominciano a spogliarsi. Non sa perché, visto che tutta la situazione parla abbastanza chiaro, ma a lui viene comunque da chiederle esplicitamente se lei lo voglia fare. Letizia risponde di sì. Le toglie il maglione e poi la maglietta. Le sfila il reggiseno. E lì resta impietrito. Letizia ha un seno-non seno. Cioè, non che abbia il seno piccolo, semplicemente ha un seno come Mattia non ne ha mai visti in tutta la sua vita. È stato con donne col seno grande (pochissime), donne col seno medio (abbastanza), donne col seno piccolo (molte), ma Letizia è diversa. Letizia non sembra rientrare in nessuna delle tre categorie succitate. Letizia ha un non seno. Delle piccole protuberanze. A Mattia viene in mente il seno di sua cugina quando aveva undici anni e andavano insieme con i rispettivi genitori a fare un po’ di vacanze frikkettone in Salento quando ancora con ogni evidenza non era diventato di gran moda. Perché quello sembra il seno di Letizia: quello di una ragazzina di undici anni, quelle protuberanze che non sono seni, ma stanno diventando tali. Solo che su una ragazza di ventisette anni hanno il sapore di una sola cosa: un seno sfiorito. Come per accertarsi di qualcosa che non riesce a capire, Mattia le sfila i jeans quasi con violenza. Ha delle gambe splendide. La gira e le bacia il sedere. Splendido. Il suo corpo è tutto bello. Tutto ok. Tranne il seno. Sfiorito. Letizia monta sopra di lui, infila il suo pene dentro di sé e comincia a muovere il bacino. Ancora una volta Mattia si ritrova a fare una cosa che non ha mai nemmeno lontanamente pensato che avrebbe un giorno potuto fare. Soprattutto in un momento del genere. Si piega in avanti, la bacia e le domanda, sussurrandole le parole all’orecchio, se stia bene. Letizia risponde di stare evidentemente benissimo, gli prende le mani e se le porta dietro il collo. Quando Mattia viene Letizia scende da sopra di lui e si sdraia sul letto, su un fianco, dandogli le spalle. Mattia è accanto a lei. Le accarezza i lunghi capelli. Lei resta ferma. Lui prova a baciarla lungo le spalle e il collo. Letizia rimane rigida. Lui le chiede di parlargli, le chiede perché faccia così. Lei si gira di scatto. E gli risponde che hanno fatto un errore incredibile…
Nel sole di maggio è la canzone che Mattia sta cercando da tempo di terminare. Il gruppo con cui fa musica è importante. Sono amici. Certo non è un lavoro: con la sua laurea – 108 su 110, ma era da lode: tutta colpa del presidente di commissione, pugliese secolare trapiantato a Roma con loft a San Lorenzo, che per motivi campanilistici non ha apprezzato la sua tesi sul rapporto tra i palazzi abusivi di Roma Est e gli onnipresenti studenti fuorisede calabresi – ha un ottimo impiego nel prestigioso studio dello zio a via della Camilluccia. Il problema è che lui ama i palazzi ma detesta la categoria degli architetti, che definisce snob e ruffiani, e quindi le ristrutturazioni non sono al centro dei suoi interessi. E di interessi al momento ne ha pochini, è parecchio giù di corda. Con Elena, che se n’è andata esausta dopo avergli detto che lui attraeva disagio intorno a sé, è finita, e la nuova cantante del gruppo, Letizia, è splendida e sfuggente. Così, mentre vaga morettianamente – Caro diario ha fatto scuola – in motorino tra un quartiere e l’altro, è costretto a fare il punto della situazione. Per fortuna c’è la Strabusso, Dorina Strabussonotti, basagliana della prima ora, un personaggio straordinario, materno, una vera intellettuale, la direttrice dell’Istituto di Sessuologia clinica, ribattezzato “peni infranti e vagine complessate”, dove lavora un altro componente della band, Andrea, dottore iperprecario laureato in psicologia, che ha scelto sessuologia a causa di una cilecca epocale con la ragazza più bella che avesse mai visto. Una roba da sindrome di Stendhal: infatti è svenuto con tanto di erezione in corso dopo averle semplicemente sfiorato un seno. Ovvio che la poveretta avesse pensato fosse deceduto… Esilarante, credibile, scritto benissimo, frizzante, brillante, divertente, leggero, allegro, profondo ma non retorico, delicato, capace di affrontare temi dolorosi e spinosi come la patologia con sobrietà e ingenua innocenza, descrittivo ma mai noioso, dotato di un gran ritmo e di una capacità fotografica rara di immortalare Roma e i suoi abitanti, soprattutto quelli che non ne sono nativi, in modo che non si può definire altrimenti che perfetto, Come una canzone, di Luca Giachi, chitarrista al suo secondo romanzo, si legge in un battibaleno e conquista per l’immediatezza e la riconoscibilità, mutatis mutandis, di contesti e situazioni in cui è facile immedesimarsi. Coming of age, bildungsroman fuori tempo massimo? No. Perché in fondo di crescere non si finisce mai.