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Contro il femminismo bianco

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Nel femminismo esiste una divisione. Seppur tacita, c’è. È quella che si riscontra tra donne che parlano di femminismo o ne scrivono e chi invece lo vive, tra le donne che hanno voce e quelle che hanno esperienza, tra quelle che dettano le teorie e quelle che portano su di sé le cicatrici. Ecco perché, quando in una calda sera d’autunno qualcuno le chiede di raccontare la sua storia, Rafia decide di fornirne la versione riveduta e corretta. Si trova in un bar di Manhattan, in compagnia di altre cinque donne: due, come lei, sono giornaliste e scrittrici, le altre lavorano nell’editoria e nei media. Sono tutte bianche, tranne lei. Rafia è contenta di essere stata invitata e desidera lasciare una bella impressione in quelle donne di cui vuole diventare amica. Qualche difficoltà, tuttavia, emerge durante la serata. La prima si presenta quando il cameriere chiede cosa intendano bere e Rafia deve confessare che non si unirà alle altre, che hanno appena ordinato sangria. Precisa che non si tratta di una questione religiosa – lei è musulmana – ma solo del fatto che sta assumendo medicinali e non può bere alcolici. Tuttavia, le risate che accompagnano il suo sospiro, quando ammette che avrebbe una voglia esagerata di bere un bicchiere di sangria in quel preciso momento, sono forzatissime e il suo desiderio di essere inclusa nel gruppo delle donne pare precluso. E allora, quando qualcuna le chiede di raccontare come sia arrivata in America, Rafia propende per una versione un po’ rivisitata della realtà. Racconta quindi di essere arrivata negli Stati Uniti per frequentare l’università e di aver deciso di stabilirvisi. In verità è sbarcata in America dopo aver accettato, a diciassette anni, un matrimonio combinato con un medico pakistano-americano di tredici anni più grande di lei. L’uomo le ha permesso, una volta sposati, di frequentare l’università negli USA, cosa che la sua famiglia conservatrice non le avrebbe mai permesso…

Secondo Rafia Zakaria, avvocato quarantaseienne proveniente dal Pakistan e trasferitasi negli Stati Uniti a seguito di un matrimonio combinato, esistono nette differenze di valore tra il femminismo occidentale, per il quale la ribellione è qualcosa di positivo, va esaltata e valorizzata, e quello che si manifesta in realtà in cui la ribellione ha un costo eccessivo in termini di vite umane. È un bene, quindi, che in queste ultime realtà il femminismo si nutra di resilienza. Ecco perché l’autrice sente la necessità, in questo saggio davvero interessante, basato su studi ed esperienze, di raccontare chi sia una femminista bianca, una donna che esalta con ammirevole grinta i valori dell’intersezionalità, senza tuttavia cedere alcuno spazio alle altre femministe, quelle non bianche, spesso ignorate e non ammesse nel movimento femminista stesso. Un esempio illuminante di quale sia il preciso pensiero della Zakaria sta racchiuso nelle sue parole, rilasciate nel corso di una recente intervista: “Le donne occidentali si tagliano le doppie punte in segno di solidarietà con le donne iraniane. Ma poi ad esempio in Francia non permettono alle donne che lo desiderano di indossarlo, il velo. In generale, una donna che lo indossa in Occidente è trattata quasi sempre come una poverina oppressa. Quindi, l’autonomia delle iraniane va difesa, è sacra. L’autonomia delle francesi non bianche invece ci fa schifo, è malintesa, non sanno decidere per sé. Liberiamole”. L’analisi della Zakaria è attenta e puntuale ed esprime la necessità non certo di escludere le donne bianche dal femminismo, ma quella di cancellare in qualche modo la “bianchezza”, quella situazione di apparente superiorità, per poter davvero promuovere la libertà di ogni donna, a prescindere dalla categoria sociale cui appartiene, dalla razza e dal colore della sua pelle.