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Cortesie per gli ospiti

Cortesie per gli ospiti

Colin e Mary si svegliano pigramente nella stanza di un albergo. Lei fa spesso sogni inquieti: i suoi figli, il suo ex marito. Con Colin vive un rapporto nuovo ma in certo senso già maturo, già stanco. Si trascinano per la città, visitano chiese, musei, antiche dimore, si rilassano con l’hashish e non pensano al tempo. Non hanno nessuna fretta. Quella antica città però li disorienta, alle volte. È sera tardi, quasi tutti i negozi sono chiusi, probabilmente anche i ristoranti e Colin e Mary si sono smarriti in un reticolo di viuzze e vicoli tutti uguali. Mentre discutono su dove potrebbero trovarsi, un uomo emerge dal buio. Sorride. È gentile. Chiede loro se siano turisti. Mary risponde di sì e che stanno cercando un posticino per mangiare. Colin fa per andar via, dice a Mary che non c’è bisogno di dare troppe spiegazioni, ma l’uomo li afferra gentilmente per i polsi. Lui può portarli in un ottimo locale, altrove ormai è inutile tentare. Si chiama Robert e la sua presa è fermissima. Colin e Mary gli chiedono di lasciarli andare e Robert si scusa, forse è troppo ansioso di poter rinfrescare il suo inglese con loro e di volerli aiutare…

Secondo romanzo di Ian McEwan ‒ nel 1990 ne venne tratto l’omonimo film interpretato da Christopher Walken, Rupert Everett ed Helen Mirren e per la regia di Paul Schrader ‒ Cortesie per gli ospiti mantiene ancora i toni un po’ morbosi delle sue prime short novel ma vi aggiunge la distensione che gli concede una narrazione più lunga, lavorando più su di un crescendo che su di un exploit finale. Per quanto sia, comunque, un romanzo non lunghissimo, Cortesie per gli ospiti è ricco di particolari che mostrano una crescita notevole nella gestione stessa della scrittura di McEwan. Per tutto il romanzo non viene mai nominata la città in cui è ambientata la storia, non vengono mai usate espressioni dialettali, non si incede mai in eccessive descrizioni, eppure Venezia esce fuori dal testo con una gran naturalezza. McEwan ricorre al non detto, all’allusione, vi è persino un “inside joke” per i più attenti, là dove l’autore riporta, quasi letteralmente, un passaggio dello Stones of Venice di John Ruskin per descrivere ‒ senza nominarla, chiaramente ‒ la Basilica di San Marco. Altro parallelismo letterario che viene spontaneo è poi quello con La morte a Venezia di Thomas Mann. Se però, in quest’ultima, si racconta una passione platonica, quasi filosofica, quella di Robert per Colin ha un presupposto più fisico e violento: il sottotesto omoerotico che McEwan delinea è ben lontano dal rapporto ossessivo ed estetizzante ma mai letale che lega Aschenbach al giovane Tadzio, ma ne è, comunque, un’inquietante rilettura. In questo senso, McEwan non tradisce le aspettative del suo lettore (del tempo); sono ancora lontane le tragicità più sottili che inizierà ad amare con Bambini nel tempo o con L’amore fatale, dove (soprattutto in quest’ultimo) ritroveremo certi temi diversamente elaborati ma non meno intensi.