
Antonella non ci pensa mai ai figli che ha abortito. Non una, ma due volte. Non ci pensa, perché si tratta di qualcosa di troppo grande a cui pensare e perché non vuole darglielo un nome, a quei due bambini che non ha avuto. L’interruzione volontaria di gravidanza è un diritto, le ha sempre detto sua madre. E lei lo sa, ma sa anche che a quella stessa madre non può certo dirlo, che lei questo diritto lo ha esercitato non una, ma due volte. Antonella lo sa che è un diritto, ma da quando è accaduto quello che è accaduto, da quando finalmente si è decisa e ha provato ad avere un figlio e per anni il figlio non è arrivato, il pensiero di quei due bambini abortiti è diventato una costante nelle sue giornate. E si è convinta che la tragedia che le è capitata se la sia in realtà meritata. Nei momenti di dolore si tende a cercare un perché e Antonella si è chiesta più volte perché ciò che le è capitato sia accaduto proprio a lei. E una risposta ce l’ha. Anche parecchio chiara: non si gioca con la vita e lei di vite ne ha rifiutate ben due. E allora è stata punita, e altre tre vite le sono state tolte tutte insieme. Se lo è meritato! Ma è meglio procedere con ordine e raccontare l’intera storia dall’inizio. La sera della vigilia del Natale 2020 lei e Andrea sono a casa di Giulia e Roberto, che hanno due figli piccoli. Antonella, incinta e convinta di avere due gemelli dentro sé, guarda la coppia di amici e si ripete terrorizzata che lei non riuscirà mai a essere come Giulia. Lei vuole lavorare, vuole muoversi, non vuole pensare ad allattamenti e passeggini. Ha paura, quindi, paura di perdere la sua scrittura e tutto il resto; non è felice e non sarà una buona madre. Durante la cena mangia ostriche crude e beve un paio di bicchieri di vino, anche se tutto la disgusta. Giulia ride e ripete che è normale abbia la nausea. È incinta! Giulia è la prima persona a cui Antonella ha rivelato di aspettare un bambino. E le è stata accanto, nel faticoso percorso lungo quattro anni che l’ha finalmente condotta alla gravidanza. Alla sua famiglia d’origine – padre, madre, sorella – non ha mai detto di essere incinta. E neppure, dopo, di esserlo stata. Tutto quello che è accaduto, per loro non è mai successo...
Ci vuole coraggio a raccontare un calvario patito sulla propria pelle stazione dopo stazione, ferita dopo ferita, con la stessa lucidità con cui lo presenterebbe chi quello stesso fatto non lo ha vissuto. E ci vuole tecnica e maestria nel rendere il racconto di un’esperienza personale materiale universale fruibile da chiunque abbia il desiderio di interrogarsi, indignarsi e cercare risposte. Antonella Lattanzi – Toni (nomignolo con cui le si rivolgono le persone che le vogliono bene) viene da chiamarla dopo la lettura di questo romanzo – mostra di avere sia l’uno che l’altra e fa dono al lettore di una storia dura, terribile, toccante e, si perdoni la banalità del termine, bellissima. È una storia che, tuttavia, va maneggiata con cura, assorbita pian piano in tutta la sua schiettezza dolorosa e necessaria. È con onestà che Toni racconta la faticosa decisione di cercare un figlio, la lunga battaglia intrapresa per restare incinta, la solitudine del percorso lungo l’impervia salita della procreazione assistita, i fallimenti, le umiliazioni e il dolore, anche fisico. C’è un compagno, è vero. C’è Andrea, ma per lo più Antonella è sola, sola con il senso di colpa legato alle due interruzioni volontarie di gravidanza cui ha fatto ricorso quando era più giovane e il desiderio di maternità non le apparteneva affatto. È sola mentre le settimane procedono, il grembo che accoglie le nuove creature – saranno tre – si allarga a farsi nido e le fasi finali legate all’imminente uscita del nuovo libro richiedono attenzione e massima cura. Sono infinite le tappe della via crucis che Toni attraversa, ogni volta sempre più piegata, spezzata, infine rotta. Un percorso irto di ostacoli e curve a gomito, un tracciato scelto dal destino che l’autrice racconta con una lucidità che pietrifica. Non è solo un memoir la vicenda che Antonella con fiducia consegna nelle mani del lettore, invitandolo tacitamente a trattarla con tutta la sensibilità di cui è capace. C’è un’urgenza di condivisione – in ogni pagina, in ogni riga, in ogni pausa e in ogni spazio lasciato volutamente bianco – che si fa storia universale, testimonianza singola che prima si rifrange in mille pezzi e poi si riunisce fino a diventare identità globale. Una storia scritta in maniera magistrale, da leggere senza indugi.