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Da una quiete immota

Da una quiete immota
La vita è un purgatorio quotidiano impregnato dall’odore di un desiderio invincibile, dove c’è sempre un moto in avanti da compiere verso qualcosa di inestricabile e di incoercibile, dove l’amore è un miele inespugnabile o forse la riproduzione di un bisogno che eguagli la nostra tensione. L’impietosa osservazione di un destino umano attraversato da un irreversibile ansia esistenziale, come un dolore navigato allo stremo, ma anche la ricerca di una sorpresa, di una soglia che immette verso prospettive nuove, dove non si è mai stati, e dove non si sa forse nemmeno di essere diretti. Un trampolino verso il mistero e, perché no, anche immersione nella fatalità delle passioni, da parte di un autore che non resta sul limitare dell’arte compiuta, ma attraversa gli esiti poetici di una complicata sofferenza, gli ambiti desolati di un livido torpore in cui trascendere...
Sembra quasi un controsenso che un vocabolo come quiete possa far parte del lessico dei poeti, anime per definizione inquiete, sempre protese verso l’indicibile. Bisogna stare attenti a non equivocare su questo termine che per Emidio Montini, pur rafforzato dall’aggettivo immota, non è mai acquiescenza, abbandono ma tutto il contrario. La quiete di cui ci parla l’autore di questo breve ma pregnante testo, è una forma contemplativa di sublimazione. Una sorta di convergenza al grado più elevato tra quanto gli viene quotidianamente offerto e ciò che egli fa di tutto per poter accettare. Gli apparati stilisti e linguistici, impiegati in versi e prosa, secondo che l’estro o il bisogno lo dettano, rivelano l’innegabile forza espressiva di un poeta che forse non sa fare a meno di una eccessiva difficoltà del dire. Che ha bisogno di continue interrogazioni, di invocazioni rivolte alle sagome anonime e indefinite degli uomini, dinanzi all’invincibilità imperscrutabile di un tempo e di un mondo che nemmeno il languore dei versi riesce ad ammorbidire.