
Delphine è una scrittrice affermata ma è dopo il suo ultimo successo, pregno di riferimenti autobiografici, che è diventata una vera e propria star della letteratura contemporanea. Presentazioni, rassegne, interviste, articoli, l’affetto (a volte soffocante) dei fan. L’autrice, poco abituata alle montagne russe della fama, fatica a tenere insieme i tasselli della sua rutilante vita, ma tra l’affetto del suo compagno e dei suoi figli e la discreta ma solida vicinanza delle sue amiche, le cose procedono senza particolari intoppi. Lei è sempre stata timida e con una certa tendenza a svalutarsi, che la porta ad essere un po’ goffa e a invidiare bonariamente la femminilità di quelle donne sempre inappuntabilmente truccate e vestite. Proprio dall’osservazione di una di quelle donne ai suoi occhi perfette, durante una festa in un locale, è avvenuto l’incontro con L., un incontro che le ha cambiato in tutto e per tutto l’esistenza. Tra le due è scattata infatti subito un’alchimia forte, data da un senso di perfetta complementarità. Sono bastate due parole, quelle giuste, a bordo pista, e si sono trovate a raccontarsi e a capirsi, come solo le vere amiche sanno fare. L. e Delphine, simili e diverse, un incontro benedetto in grado di aiutare quest’ultima a ripararsi dal frastuono del successo. ...
L’autrice francese Delphine de Vigan confeziona un prodotto straniante e obliquo, che ha in Misery e La metà oscura di Stephen King i suoi dichiarati numi tutelari. Nel rapporto malsano fra le due protagoniste del romanzo riecheggiano i fantasmi degli abusi fisici e psicologici di Annie Wilkes, l’infermiera fanatica di Misery, mentre nello sfuggente döppelganger rappresentato da L. si rivede la dicotomia Thad Beaumont/George Stark, miscela esplosiva alla base del successo de La metà oscura. Lungi comunque dall’essere un prodotto derivativo, Da una storia vera è un’opera complessa e ambiziosa, non solo per lo stile, marcatamente introspettivo, ma anche per il suo intrecciarsi di metafore e allegorie, le quali la rendono una lettura non solo piacevole, ma soprattutto accattivante e incalzante. Delphine e L. sono due facce della stessa, inquietante, medaglia. La prima è la scrittrice assediata dal successo che pian piano sprofonda in una depressione che si traduce, professionalmente, nel temutissimo blocco dello scrittore; la seconda è una donna misteriosa, apparentemente priva di passato ma ben intenzionata a inserirsi prepotentemente nel presente e nel futuro della sua nuova amica sino ad arrivare a sostituirla. Questo gioco delle parti, vera arma in più del romanzo, si può leggere in diversi modi. Senza ombra di dubbio ci troviamo di fronte a un libro sul mestiere dello scrivere e sull’intimo rapporto intercorrente fra l’autore e le sue creature, ma è anche un gioco di specchi senza tregua, dove L. rappresenta allo stesso tempo una proiezione di Delphine, una subdola e feroce aguzzina, un personaggio di finzione all’interno della stessa finzione libresca nonché una metafora delle aspettative insaziabili (e spesso tossiche) che seguono a un grande successo. In virtù di queste sottili e raffinate ambiguità non sorprende che un regista come Roman Polanski, sempre molto attento ai temi del doppio e della sofferenza psicologica (L’inquilino del terzo piano, Repulsion, Frantic), abbia deciso di trarne un film, Quello che non so di lei, uscito nel 2017 e interpretato da Emmanuelle Seigner ed Eva Green.