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D’amore e di rabbia

D’amore e di rabbia

Catania, dicembre 1917. Nella sfarzosa dimora degli Abate, Eleonora e l’avvocato Giuseppe, suo marito, intrattengono gli ospiti che proprio in questo momento sollevano i calici e brindano all’Italia e agli italiani. Anche Amelia imita gli altri invitati, alza il suo bicchiere e se lo porta alle labbra. Certo che la sua amica Eleonora davvero vive in un mondo parallelo. Non segue le vicende politiche del suo paese, non legge i giornali – se non quelli che trattano di cinema o di moda – e ascolta distrattamente le conversazioni tra il marito e gli altri ospiti. Amelia si chiede come la donna possa riuscire a essere completamente impermeabile alla realtà che coinvolge gli altri. Impresa difficilissima, pensa Amelia. Specie in tempo di guerra. Intanto, di fronte a lei, il barone Francesco Beneventano leva nuovamente in alto il calice, mentre i suoi baffi le sorridono, moltiplicandosi attraverso le mille facce che il cristallo del bicchiere rimanda. Non fa che guardarla e Amelia non sa se esserne lusingata o dispiaciuta. Quel che sa per certo, tuttavia, è che non è la compagnia di un signorotto di paese a mancarle. Dopo la fine del suo matrimonio, Amelia si è rimboccata le maniche e ha deciso di fare la maestrina a casa. E insegna non solo ai più piccoli, tra cui il figlio di Eleonora, ma anche ai giovani universitari, cui ha impartito lezioni di latino. Ora, però, le aule sono deserte e solo qualche studente continua a scriverle lettere, anche dal fronte. Eleonora, qualche giorno dopo la sontuosa cena, mentre le due sono sedute a un tavolino del Caffè Lorenti, in piazza Stesicoro, le fa notare che non può certo farsi scappare un’occasione simile. I Beneventano della Corte sono una tra le famiglie più ricche della città e il barone ha già chiesto più volte di lei. Amelia ha ormai trentacinque anni, le ricorda l’amica, e non può certo sperare in una fortuna migliore. Ma Amelia è dubbiosa: è già fuggita due volte da blasoni e stemmi, che le hanno rovinato la vita...

Partendo da un fatto di cronaca piuttosto cruento, Giusy Sciacca firma il suo primo romanzo e racconta una storia che lascia il segno. Ambientato tra Catania e Lentini negli anni del primo Novecento, quello che l’autrice offre al lettore non è un romanzo sulle donne siciliane, o per lo meno non solo quello. In realtà, la sua è una storia che mostra la condizione femminile del periodo storico in cui la vicenda è collocata. Quel che si racconta davvero è il lato meno piacevole della libertà, quel gusto amaro che resta in chi è costretto a operare una scelta importante e finisce per sentirsi comunque fuori posto. Perché si sa, le decisioni audaci possono finire per tagliare ponti, chiudere porte, generare dicerie e fandonie, perché le malelingue si nutrono di questi momenti, appetitose portate di un banchetto in cui si finisce per isolare chi è caduto in disgrazia. Certi giudizi quindi feriscono e, per difendersi, si preferisce rinchiudersi in una gabbia – anche dorata, come nel caso di Amelia, uno dei personaggi principali della vicenda, ma pur sempre tra le sbarre – tarparsi le ali e accettare anche ciò che la propria coscienza non vorrebbe. Con una prosa davvero potente ed evocativa, l’autrice aggancia il lettore fin dall’inizio della vicenda, lo conduce tra i latifondisti della Sicilia degli anni Venti da una parte e la povera gente dall’altra. In mezzo c’è Amelia, appunto, che sceglie per sé una gabbia di lusso e ignora, finché può, il suo cuore, che tuttavia fa rumore e palpita per qualcun altro. Un romanzo intenso, una lettura davvero piacevole, una scrittura interessante, un ottimo esordio.