
Di fronte al muro di indifferenza, se non di ostinata avversione, che i detenuti spesso erigono nei riguardi delle istituzioni carcerarie, due atteggiamenti sono possibili: mettersi sulla difensiva e, semplicemente, far valere norme di sicurezza più o meno ferree a seconda dei casi; oppure tentare di realizzare il dettato costituzionale e fare in modo che il carcere sia un luogo non soltanto di reclusione e pena, ma anche di rieducazione e reinserimento sociale. Non si tratta di negare la natura punitiva e detentiva del carcere; tuttavia essa non può bastare, deve essere il punto d’inizio di un percorso. Attrarre i detenuti, “ingaggiarli” in una forma di attività – artistica, lavorativa o altro – è il primo passo da compiere, per permettere loro di cambiare prospettiva, di considerarsi parte dello Stato che hanno combattuto, di trarre un senso fruttuoso dal proprio passato. In questo modo i criminali possono sperare in un posto nella società sana; carcerati in regime di 41bis possono trovare sollievo parlando di legalità nelle scuole; un killer mafioso come Roberto Cannavò può arrivare a commuoversi cantando Signor tenente e a inchinarsi davanti alla foto di Falcone e Borsellino. Tutto questo è il lavoro dei direttori degli istituti penitenziari, l’obiettivo da tenere fermo con i semplici delinquenti e con i peggiori mafiosi, nelle situazioni di calma e durante le guerriglie interne. Tutto questo è senso dello Stato…
Giacinto Siciliano è stato direttore di vari istituti penitenziari, a Trani e a Monza, a Sulmona – il “carcere dei suicidi” – e all’istituto Opera di Milano, dov’era detenuto Totò Riina, fino ad arrivare a San Vittore durante la rivolta dei carcerati per le difficoltà legate all’epidemia da Covid-19. In questo libro egli ricorda le molte difficoltà e le grandi soddisfazioni di un mestiere difficile, svolto al servizio dello Stato con fermezza e senso pratico. Privo di divagazioni teoriche, il saggio descrive i valori di riferimento dell’autore in modo asciutto ma appassionato, lasciando più ampio spazio ai ricordi, agli aneddoti e al racconto degli avvenimenti. La narrazione è tutto sommato lineare, in ordine di tempo anche se con alcune anticipazioni, e senza una struttura saggistica solida: il punto di vista esplicitamente autobiografico rende superflue complicazioni della scrittura. Anche la prosa è giustamente poco elaborata: l’interesse del lettore è tutto rivolto a ciò che l’autore racconta, tanto sono significativi i fatti ricordati. Alla grande questione, di come coniugare un compito costituzionalmente sancito con le varie e difficili situazioni delle carceri italiane, Siciliano risponde presentando con semplicità e sincerità il suo lavoro, il suo mestiere, fatto di responsabilità gravose e di cura umana.